Orizzonti

Miracol di Bogdan George Apetri

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Cristina è una suora diciannovenne che evade da un monastero per andare a risolvere una questione importante. Possiamo solo intuire di cosa si tratta, perché la meta della sua fuga non è mai dichiarata apertamente. Alla fine della giornata, dopo aver girovagato per la città, la giovane si decide a tornare, senza aver incontrato chi cercava tanto urgentemente e andando incontro a un destino violento. La conclusione della sua parabola non è che il prodromo per la seconda parte di Miracol, presentato nella sezione Orizzonti. Dalla metà in poi, la macchina da presa di Bogdan George Apetri pedina l’ispettore Marius Pedra, che dovrà dipanare i fili di quanto successo alla giovane, come in un controcampo al negativo della prima parte del film. Oggetto e soggetto di invertono e rendono il film una superficie impossibile, in cui il male sembra un’ombra senza proprietario, impossibile da scorgere da vicino. Quel climax violento, punto apicale di un racconto bipartito, non è comunque né divisivo né stagno. Miracol rimane un film pienamente coeso proprio in virtù di quello strappo mediano, costruito poco a poco grazie a una tensione crescente ma sottile, innestata su un racconto realista. 

L’approccio di Apetri parte infatti da riferimenti prettamente inscritti nella cosiddetta Nuova Onda Rumena. Nonostante le differenze stilistiche che distinguevano i vari registi, la critica internazionale riconosceva negli autori nati durante gli anni sessanta del secolo scorso, un approccio trasparente al mezzo, che qui ritroviamo. La forza di Miracol risiede infatti nel riuscito tentativo di fare uso di quel realismo minimalista che aveva esaltato la critica dei primi anni Duemila, per metterlo al servizio di un whodunnit incalzante e straziante. È una parabola thriller che non ha paura di sostare nelle inquadrature lunghe e di farcire l’incedere del racconto con le sincrasie della realtà rumena, col chiacchiericcio di passanti e personaggi “non utili” all’economia del racconto. I lunghi tragitti di Miracol occupano gran parte della durata del film e rifiutano ogni taglio di montaggio, lasciando che sia la realtà a parlare, tramite uno sguardo quasi antropologico, affine a quello di Jafar Panahi (Taxi Teheran, Tre Volti). Per questo la violenza dell’evento che colpisce Cristina risuona ancor più tragicamente sull’abitudine di un giorno qualsiasi e dà avvio al dramma di un uomo scisso nella sua funzione pubblica e privata. Quella di Marius Preda, veicolo della biunivocità di tutto il racconto, è infatti una ricerca complementare al viaggio di Cristina, una personale discesa agli inferi a ritroso nei fatti e nel film inteso come costrutto, una specie di indagine impotente che ricorda quella dei protagonisti de Il cliente (2016) di Asghar Farhadi e di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho. Il valore di Miracol sta quindi nel riuscire in un racconto del reale che sa anche farsi parabola di fede - vedi il titolo - intesa nella prospettiva laica ed esistenziale della ricerca di una colpa e quindi di un’espiazione.

Passati un paio di decenni dalle nuova onda il cinema rumeno è oggi un cinema adulto, diversificato, molteplice nei temi e negli stili e Miracol ne è una prova solida, per la sua complessità formale e per il suo saper mettere in discussione le abitudini del raccontare, con una storia avvolgente che non permette allo spettatore di staccare gli occhi dallo schermo.