Concorso

Spencer di Pablo Larraín

focus top image

Non è l'horror. È horror. C'è una sottile differenza. Da straniero, da lontano, il cileno Pablo Larraín guarda a Lady D. come noi – gli spettatori di un film –guardiamo il protagonista di un film horror. E costruisce il suo Spencer, a partire dal sublime plongée geometrico sul titolo di testa, attorno a uno schema narrativo horror.

Pensateci. Il film comincia con Diana al volante che si perde nella campagna inglese («Dove cazzo sono?»), dopo peraltro avere chiesto indicazioni in una locanda piena di locali nel mezzo del nulla, e prosegue stringendole attorno gli spazi e le ore di Sandringham House, tre giornate, la Vigilia di Natale, Natale e il Boxing Day (il 26 dicembre, il nostro Santo Stefano), durante le quali le finestre si sigillano, le tende si tirano, le porte si chiudono, i muri si avvicinano, i corridoi si allungano, i pranzi e le cene sono eventi minacciosi e nauseanti, gli angoli nascondono fantasmi, le notti e il sonno celano incubi.Tre giorni durante i quali la servitù è guardia e carceriera; tre giorni che conducono Diana alla follia, alla visita notturna di una casa abbandonata – la sua d'infanzia – zeppa d'insidie, di ricordi ingombranti e di presenze; tre giorni nei quali Diana non medita la fuga ma le si dà, per sopravvivere ancora per un poco di più, per rirespirare, per rivivere quel tanto che basta. In Spencer la protagonista, Lady D., non muore: happy end, il buono vince.

Larraín dunque non cerca l'horror della Famiglia Reale («Non sono cattivi», si dice), l'horror del contesto, dei quadri, della realtà. Sarebbe fin troppo facile. Cerca invece e trova il materiale per un horror che sia horror cinematografico. Un film non dell'orrore, quindi, ma un film che è horror. Perché è inquadrato come un horror, è musicato (dallo stile e dalle note di Jonny Greenwood) come un horror, ha le cadenze di un horror. L'idea allora di replicare, rifare, ripensare lo Shining kubrickiano, talvolta alla lettera come neanche lo Spielberg di Ready Player One, non è meno che geniale, in quanto Spencer sembra andare alla matrice dell'horror: una preda, una casa (maledetta), il passato che ritorna, la serenità sempre più distante e sempre più irraggiungibile, la pazzia che respira accanto, l'insopportabilità e la sconnessione.

E come in buona parte degli horror della storia del cinema, la protagonista di questo horror probabilmente non spaventoso ma senza dubbio inquieto finisce per salvarsi. Salva sé e salva noi, gli spettatori. Sapete perché? Semplice, perché evadendo dalla casa maledetta, dai suoi fantasmi e dalle sue ricorrenze, dove tutto è già previsto (come in un film horror, appunto), Lady D. riconduce il suo essere-cinema, essere-(un e in-un)film, nella vita di tutti i giorni, su una panchina vicino al Tamigi. È qui, nella banalità che è anche la nostra, che ciò che è cinema può rincontrare una sostanza, la verità. Spencer diventa così uno straordinario e vertiginoso film di cinema e sul cinema; un film che si fa genere (horror) e che crede in modo deciso che a guarirci, guarire noi e loro, i film, debba essere prima di ogni cosa un semplice gesto di fede personalistica. Via dalla pazza folla. La fede che il cinema (ossia la fantasia, la favola, l'immaginazione) possa avere la meglio.