Concorso

Blonde di Andrew Dominik

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Prima di essere un film pronto per la piattaforma Netflix, Blonde è dal 2000 uno dei libri vertice della prolifica produzione di Joyce Carol Oates, uno dei nomi più rappresentativi della moderna letteratura americana, più volte “in odore” di Nobel. Nel voluminosissimo “docu-romanzo”, edito con successo anche da noi, prima da Bompiani e poi da La nave di Teseo, l'autrice riscrive (senza scostarsi troppo nei punti cardine) la vita di Marilyn Monroe, ricamando con una prosa potente, colorata e aggressiva sulla tragica parabola di una star la cui vita privata ha dolorosamente quasi sempre negato la luminosità di un universale appeal scenico e lo stato di dea desiderata dai maschi e ammirata dalle donne, di obbligata insomma alla felicità.

Immaginiamo la bramosia e il timore di Andrew Dominik, australiano a cui piace lavorare sul cinema di genere puntando spesso a un virtuosismo arty (L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007, Cogan - Killing Them Softly, 2012), quando finalmente il suo ri-adattamento del testo (risalente almeno al 2010) ha ottenuto l'ok da Plan B  Entertainment (quella di Brad Pitt e Jennifer Aniston) ed è ora diventato film di due ore e 45 minuti, dopo una lavorazione resa faticosa anche per colpa del covid.

Dominik ha sostanzialmente rispettato lo schema della Oates, facendo dei traumi infantili (madre disturbata, il mito di un padre sconosciuto, un'infanzia segnata dal ricovero della genitrice e l'orfanotrofio) una sorta di maledizione in un sempre frustrato bisogno di affetto e di riconoscimento di sé, una pulsione che la schiavizzazione dello Studio System e la scissione tra la fragile, bisognosa di normalità, Norma Jeane Baker e l'oggetto di desiderio Marilyn Monroe non fecero che acuire sino alle tragiche conseguenze (fu trovata morta a 36 anni, il 4 agosto 1962 nel suo letto).

«Non capisci mai cosa è reale e cosa è dentro di te», dice Norma Jeane all'inizio e sembra quasi che il regista voglia mescolare in un frullatore, i fatti e la loro deformazione allucinata secondo la prospettiva della protagonista, vari stili e forme narrative, naturalismo e grottesco, colore e abbacinante bianco e nero (qualche volta espressionista), ralenti e vorticose accelerazioni, in un continuo passaggio di scene madri, tra fusioni ardite di immagini, simil clip musicali, salti dal realismo alla trasfigurazione psico surrealista persino dentro alcuni suoi film più famosi (curiosamente manca però Gli spostati, forse perchè troppo “facile” metaforicamente). Altra scelta forte, quella di rinunciare totalmente alla figura della Monroe esistita, per farla rivivere indossata, in un gioco di rimandi tra l'iconologia di massa e l'aderenza ammiccante, da una Ana De Armas seducente e martirizzata, ma anche lontana dalla burrosità quasi innocente della vera Marilyn dello schermo.

Una indubbia faticaccia la sua a cui va riconosciuto almeno l'onore delle armi, anche se la sceneggiatura l'ha costretta nella mera imitazione e nel ruolo di sacrificale “pezzo di carne” («Lei non ha una vita, ha solo una carriera»), mentre i maschi, amanti o mariti, le volteggiano intorno e si sostituiscono come tanti, persino inconsapevoli, turnisti della manipolazione e del calvario, da cripto gay come Charles Chaplin jr ed Edward G. Robinson jr. («Siamo figli di  uomini che non ci volevano»), a Joe Di Maggio e Arthur Miller, suoi mariti (chiamati “daddy”, e chi vuol intendere...), chi divorato da una gelosa e violenta incomprensione chi solo inadeguato, per non parlare di un Presidente Kennedy caricaturizzato come un insensibile e volgare predatore sessuale con tanto di busto per la schiena evidenziato.

Una scelta così, laccata e solo superficialmente iper-variegata, alla lunga appesantisce la narrazione, in compenso quello che disturba sino all'intollerabile sono alcune cadute di gusto che rivelano la scarsa finezza del cineasta, da feti (immagine ricorrente) che a volte parlano, a sequenze gratuite dall'interno dell'utero.