Fuori Concorso

Riget Exodus di Lars von Trier

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«Come si fa a fare una boiata come questa?», esclama un’anziana signora dai capelli grigi alla fine della seconda serie di Riget – Il Regno. Estrae il dvd e, nella sua casetta dal tetto a punta, va a dormire. Ma, prima di addormentarsi, si lega al letto con corde e legacci, dai quali si libera poco dopo, prima di dirigersi sonnambula verso il grande ospedale illuminato che sovrasta la città.

Comincia così, con la tenera Karen chiamata a “salvare” il Regno le cui porte, tra l’umidità, il freddo e le crepe, si stanno riaprendo, Riget Exodus, terza parte della serie inaugurata da Lars von Trier nel 1994 e ripresa nel 1997. La progenie di Babilonia si sta risvegliando e le anime che circolano negli anfratti dell’ospedale dovranno dividersi tra Bene e Male e prendere ciascuna la giusta direzione, avviarsi ciascuna nel giusto baratro. Da qualche parte, nelle indaffarate cucine sepolte nell’edificio, un lavapiatti affetto da progeria e un aiutante robottino maldestro commentano (e spesso anticipano) gli eventi, gli scontri, le minacce. E mentre Karen si avventura nei meandri della clinica sia come (malauguratamente) paziente che come esploratrice delle oscurità sotterranee nelle quali soffre e affonda Fratellino (diventato nel frattempo Fratellone), ai piani alti arriva un nuovo chirurgo dalla Svezia, il dottor Helmer jr. (figlio del senior protagonista delle serie precedenti), con i cerchioni della Volvo amorevolmente tenuti sottobraccio e lo stizzoso disprezzo per i vicini danesi, davanti ai quali si sforza di sorridere sempre. E a quelli altissimi, sopra il grattacielo, si librano un elicottero fantasma, un gufo misterioso e mutante, un cacciatore di spiriti e inquietanti figure dell’Apocalisse.

Riget Exodus è diviso in sei puntate, introdotte dalle immagini seppiate dei candeggiatori immersi nei loro liquami; dura 295 minuti, surreali, orrifici, comici, grotteschi, dolenti, assurdi. Una disperazione totale, un’inettitudine e una follia galoppanti, davanti alle quali non si può non ridere. A parte l’insanabile rivalità tra danesi e svedesi (che ha momenti e battute memorabili), a parte la sciatteria di tutto il personale ospedaliero, le operazioni sbagliate e le riunioni dementi, il microcosmo agghiaccia per la sua aderenza al mondo esterno dove, sotto la compostezza del politically correct, ribolle un magma infernale. Ha ragione Von Trier, le porte dell’inferno si stanno riaprendo e non è solo il suo malevolo ingegno a mandare in malora l’ospedale (come pensano medici e infermieri, indignati per le serie precedenti). O forse sì? Autoreferenziale con ironia, Von Trier ci riporta dritti dove ci aveva lasciati, tra i colori pastosi e i caratteri deliranti di allora, sempre più giù, o più su, a seconda della direzione in cui si guarda.

Non spoilerabile, Riget Exodus è un fuoco di fila inesauribile, dove i nuovi personaggi sono perfettamente all’altezza di quelli ancora in circolazione e dove, sotto il graffio di ogni battuta, pulsa il sangue di una ferita. Citazioni di tutta la cultura nordica citabile, ma anche (ironiche) di Roy Batty con sue navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione, forse di C’era una volta in America e di Alice nel Paese delle meraviglie e certamente di Twin Peaks (che fu un modello) e inevitabilmente del Settimo sigillo. Von Trier questa volta vira più in direzione della commedia grottesca, dimostrando tuttavia in molti passi cosa significhi girare un horror e, soprattutto, un horror per la tv, stretto in angusti anfratti, melmoso, ravvicinato. Si ride molto. Eppure, sotto sotto, serpeggia invasiva un’inquietudine sottile, l’ansia di Karen e del suo alleato portantino, l’inconsolabile dolore di Fratellone, che rischia di affogare nelle proprie lacrime. Riget, ahimé, siamo noi, il nostro mondo e l’orrore che si sta scoperchiando.