Concorso

The Eternal Daughter di Joanna Hogg

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In questo specchio scuro e gotico, in cui a perdersi nell'illusione di ritrovarsi è una donna che è anche una filmmaker che è anche una figlia, le ombre, le tonalità-colore, le nebbie e i silenzi rotti da qualche persiana che sbatte non sono passi di un copione, quello cioè che sta cercando di scrivere la protagonista Julie (Tilda Swinton; Julie è anche il nome del personaggio attorno al quale ruota il dittico della regista inglese Joanna Hogg The Souvenir e The Souvenir Part II). Sono invece sensazioni. Sono emozioni profondamente personali.

Perciò le ombre di questa ghost story ferma nel tempo, le tonalità-colore di violenta densità pantone (lampade, tappezzerie, tende), le nebbie e i silenzi di questo thriller psicologico senza mistero (e dunque senza alcuna suspense per la rivelazione conclusiva), sono visibili e udibili solo da lei, Julie. Che cerca di esercitare il suo mestiere in un hotel isolato nella campagna e apparentemente deserto (fatta eccezione per una giovane receptionist sgarbata e per un cortese guardiano notturno), ma più di tutto intende dare forma a un privato – il suo e quello dell'anziana madre (interpretata dalla stessa Swinton) – che non può essere carpito. Non può trovare espressione. Perché rarefatto, perduto, talvolta dimenticato. Il privato non ha volto, e l'unico volto che si vede è di comodo. Dead ringers. Il privato, il personale, la memoria non possiedono lineamenti adeguati a essere colti e riprodotti.

Ovverosia: una delle motivazioni primarie alla base del gotico. E perfino dell'horror. Entrambi, gotico e horror, quando validi sfuggono alle rappresentazioni egemoni. Sono ombra, colore (perché anche il nero dell'abisso è un colore), nebbia, silenzio. Sono una presenza dietro la finestra. Sono un rumore al piano di sopra. Nel cinema contemporaneo è raro assistere a una simile prova intellettuale, decisa e ai limiti del capriccio (distribuisce A24), che operi però uno scarto così drastico e così puro nei confronti delle storie di fantasmi tipicamente british. Produce tra gli altri la BBC (e Martin Scorsese), e infatti tornano alla mente suoi classici come Whistle and I'll Come to You. Ma anche il The Woman in Black di Herbert Wise per ITV Network.

Joanna Hogg usa dunque il genere non come carta da parati o semplice atmosfera: per lei il gotico vittoriano e le luci “alla Hammer” (la fotografia in pastosissima pellicola Kodak è di Ed Rutherford) sono una manifestazione identitaria di inquietudine, tormento, frustrazione. Il genere, per Joanna Hogg, è la sola immagine possibile in un film dove è straordinariamente difficile elaborare – e quindi esternare, rendere a parole, immaginare – un lutto. Lutto, si badi, che non è soltanto una morte: lutto è anche disperazione, solitudine, blocco creativo.

Finalmente il genere torna a essere il modo giusto. L'immagine giusta. Lo sguardo ideale. Finalmente torna a darsi come realtà. Non solo strumento, non solo mezzo: in The Eternal Daughter, che sembra un romanzo di Elizabeth Strout messo in scena da Dan Curtis, l'orrore è una percezione che dà la misura del mondo. Niente di meglio, mentre altrove (fuori!) regna il conformismo.