Concorso

El Conde di Pablo Larraín

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Il generale Augusto Pinochet, che era stato presidente della giunta militare cilena dal settembre del 1973 e dal 1974 presidente (leggi: dittatore) della Repubblica cilena fino al clamoroso NO del plebiscito popolare che nel 1988 aveva portato alla sua destituzione, morì nell’ospedale militare di Santiago il 10 dicembre del 2006. Aveva 91 anni, sulle spalle migliaia di morti e di desaparecidos, un colpo di stato sanguinoso, era stato accusato di crimini orrendi contro l’umanità, messo quattro volte agli arresti domiciliari ma, godendo dell’immunità parlamentare, non era mai stato davvero processato. Pare fosse diventato ricchissimo, tra evasione e riciclaggio. Ma i morti, per Pablo Larrain, non muoiono mai. I morti ritornano, a raccontarci chi sono e chi siamo, uno dopo l’altro: le vittime del golpe del ’73 (Post Mortem) e poi ecco Neruda, Jackie, Lady D. E Pinochet, che addirittura non è mai morto, ma vive in una tenuta sperduta nella campagna cilena insieme alla moglie Lucia e al maggiordomo factotum russo Fyodor. Vive da 250 anni, perché in realtà nacque in Francia il 25 febbraio del 1766, si chiamava Pinoche e, passando come feroce controrivoluzionario da una rivoluzione all’altra (a partire da quella francese, durante la quale riuscì a ghermire la testa di Maria Antonietta, per la sua collezione), approdò in Cile, dove si sistemò, diventò el Conde, il Conte, quel Conte.

Ci racconta tutto in perfetto inglese una suadente voce femminile off, come si trattasse di una favola nera: Pinoche/Pinochet infatti è un vampiro, si nutre di sangue umano (o, meglio ancora, di cuori umani ancora palpitanti passati nel frullatore), con netta preferenza per il sangue inglese e un discreto disprezzo per quello sudamericano. Ma oggi, tra i suoi e altrui cimeli, medaglie, statuine di Napoleone, fotografie, vhs, Marcia di Radetzky, divise (e altre cose ancora, più oscure, conservate nei sotterranei), è stanco e ha deciso di smettere di nutrirsi e di morire.

Nello splendido bianco e nero di uno dei più grandi direttori della fotografia viventi (Ed Lachman), Larrain s’intrufola nella vita quotidiana e notturna del Conde, nei suoi voli a mantello spiegato sul cielo di Santiago, dove di notte va a nutrirsi e talvolta a osservare la città dalla cima della Moneda, nei suoi dialoghi con il maggiordomo che sa tutto di lui, nei balli affettuosi con la moglie, nel suo scontroso incontro con i cinque figli rapaci che si precipitano alla villa per trovare i documenti del tesoro nascosto del dittatore. Più una giovane suorina esorcista inviata dalla Chiesa e la voce off british della narratrice.

Film eccentrico, sinuoso come le evoluzioni vampiriche nei cieli notturni e diurni, gotico e politico, El Conde riesce a raccontarci una figura mostruosa, inanellando i suoi misfatti e le sue ruberie negli scambi di battute, senza mai perdere il ritmo di uno humour grottesco e perfido che tiene insieme i fili della Storia, una Storia nella quale nessuno dei personaggi del film è degno di redenzione. Larrain ha una “buona parola” per tutti, anche quando essi indossino l’abito talare; Larrain sa che i vampiri sono sempre stati tra noi e si diverte a raccontarceli con una scioltezza narrativa, un gusto delle immagini ampie e nitide e un giocoso senso della suspense (c’è un coup de theatre a due terzi che sarebbe criminale rivelare) che fanno di El Conde uno dei film politici più azzeccati degli ultimi anni. Oggi, nel settembre 2023, a cinquant’anni esatti dal colpo di stato che instaurò la dittatura criminale di Pinochet.

Chissà se Larraín, anche autore della sceneggiatura insieme a Guillermo Calderòn, conosce i libri di Kim Newman, studioso e critico cinematografico britannico, esperto di horror, autore di saggi e libri sul genere, ma anche di un ciclo romanzi orrifici (Anno Dracula, Il barone sanguinario, Dracula Cha Cha Cha) nei quali trasporta il conte Dracula a dominare nella Londra della Regina Vittoria, nella Germania nazista e ancora a Londra, quando era Swinging, mescolando ai vampiri personaggi letterari e storici. Stesso gusto del paradosso, stessa bizzarria metaforica, stessa intelligenza critica e narrativa.