Concorso

Enea di Pietro Castellitto

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L'inizio indispone e non poco. Tre personaggi in scena in una incantata notte romana chiacchierano in quieta e alcolica tristezza infilando una collana di luoghi comuni, da «meglio la miglior solitudine alla peggior unione» a «la depressione dà uno scopo: sopportare la vita». La scena dura (sospettiamo volutamente) un po' troppo ed introduce il personaggio principale, Enea (un nome, un destino?), assieme al suo amico Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio), uno spirito mattocchio che vuol sempre cantare Spiagge appena gli è possibile e sta prendendo il patentino di volo. A “sprizzi” e bocconi la trama saltabecca tra due tronconi di storia, l'attività criminale di due “normali” ragazzi (anche sognatori e puliti a loro modo) della Roma più che bene (Enea è proprietario di un ristorante etnico che accetta assieme al compare di fare da corriere di ingenti quantità di cocaina via aereo) e il ritratto di una famiglia rabberciata che si tiene insieme con mille sforzi: un padre psicanalista che affetta tranquillità ad oltranza (Sergio Castellitto), una madre giornalista televisiva chiaramente infelice di come vive e cosa fa (Chiara Noschese), un fratello minore che alterna le malevoglie ispide dell'età a una venerazione per il fratello, a cui si aggiunge una fidanzata per Enea da sogno realizzato (Bendetta Porcaroli). La cifra stilistica è un pout pourri di toni mescolati, ora drammatico isterici, ora poetico surrealisti, ora con improvvisi momenti di humour “slow burning” (alcuni molto divertenti).

Nel paciugo di sovrapposizioni, da un impudente moralismo troppo esibito si passa a scene action di forte impatto (e anche di sorprendente talento compositivo). Alberto Barbera, il direttore della Mostra, un po' ci azzecca quando presenta Enea e parla di “Grande Bruttezza”, riferendosi al film di Sorrentino rivisitato all'inverso (aggiungiamoci anche Suburra e l'opera prima di Pietro Castellitto regista, I predatori, e non sbagliamo), con la differenza che il cineasta partenopeo possiede una leggerezza umorosa oltre lo snob che questo Enea non possiede.

Possiede però l'ambizione e un occhio registico spesso non banale con carrellate (ad esempio) che partono da una rete di un campo da tennis per seguire una linea dall'alto dall'aereo. La musica da nostalgia canaglia fa tanto generone cinematografico (Bandiera Gialla, Maracaibo, Maledetta primavera per saturare il senso di quel che mostra) e qualche personaggio è abbastanza tipizzato da farsi probabilmente ricordare: più che lo sgradevole giornalista dal nome bellocchiano Oreste Dicembre che troppo sa, pensiamo al saggio spacciatore dalle riflessioni pacatamente illuminate (le prediche migliori vengono dai pulpiti inaspettati ed è anche una calibrata interpretazione di Adamo Dionisi), mentre l'Enea/Castellitto è un antipatico antieroe bisognoso di vie di scampo («Io vivo per ferire le persone che amo»), volutamente sgradevole ma con improvvisi sbalzi di etica e di tenerezza.

Insomma film a luci e ombre, che pensa forse troppo in grande; Pietro Castellitto ci sembra però faccia parte di una generazione di cineasti, romani non per coincidenza (Damiano e Fabio D'Innocenzo, più aggiungiamoci gli anagraficamente più grandi Gabriele Mainetti e Marco e Antonio Manetti) che fanno dell'indignazione rabbiosa la motivazione di base per una narrativa intrisa di post-modernità e di ricerca di visioni non consunte, a volte presuntuosa ma certamente sincera e non snobbabile. Si può sbandare per troppo autocompiacimento, voglia di dire e di fare i fenomeni, ma è un cinema che, se trovata la misura e una sicurezza di stile, si scoprirà ricco (e a sprazzi già lo è) e travolgente.