Il cinema di Ryūsuke Hamaguchi vive da sempre di polarizzazioni dialettiche: la città e la campagna, il silenzio e la parola, la realtà e la finzione, il destino e il caso, la periferia e i centri urbani, la perdita e il riscatto, la prossimità e la distanza. Spesso e volentieri, mediatore o detonatore di queste contrapposizioni, solo apparentemente inconciliabili, è il movimento. Si tratti di una fuga, di un viaggio o di un’escursione tra i boschi, come avviene in Evil Does Not Exist.
Il film si ambienta in un villaggio rurale non distante da Tokyo, dove il tuttofare Takumi, vedovo e taciturno, vive con la figlioletta Hana svolgendo lavori utili alla comunità come tagliare i ceppi di legna e attingere l’acqua da un ruscello che approvvigiona tanto la fauna quanto le attività locali. Un ecosistema rurale che vive un tempo fondato sui cicli naturali, appena toccato dall’irruzione della civiltà, dove al dominio dell’uomo sulla natura stessa si sostituisce invece una coesistenza non sempre armonica (il rischio paventato delle piene, la caccia di cervi e cerbiatti). L’equilibrio, però, è destinato a rompersi definitivamente quando l’agenzia di moda e spettacolo Pyramid, per ricevere le sovvenzioni concesse dal governo al fine di arginare la crisi innescata dalla pandemia di Covid-19, acquista un terreno per costruire un resort per attività di glamping, provvisto di una fossa settica potenzialmente in grado di alterare il bilanciamento idrico della zona. E a nulla sembrano valere le proteste dei residenti rivolte ai due mediatori inviati dall’azienda per discutere del progetto.
Anche sceneggiatore, Hamaguchi ha costruito il film partendo dalle suggestioni suscitategli dall’ascolto alcuni brani della cantautrice Eiko Ishibashi (con cui aveva già collaborato nel precedente Drive My Car). Il racconto sembra quindi trasformarsi in un’ideale partitura, frammentandosi in lunghe sequenze dai tempi dilatati che restituiscono la temporalità ciclica e astratta dei luoghi, spezzata dall’improvvisa irruzione delle logiche del capitalismo metropolitano (fondato sul principio del consensus decision-making, come mostra la riunione dei responsabili della Pyramid a Tokyo), completamente estranee all’economia locale di piccola scala.
Successivamente, la focalizzazione si sposta sul confronto tra il burbero Takumi, perfetto rappresentante di una cultura sospesa tra un rispetto mistico degli elementi e un superiore senso comunitario, nonché nascostamente tormentato dal fantasma della morte e della violenza, e i due impiegati della Pyramid, che cercano invece d’instaurare un dialogo forse irrealizzabile con il loro universo urbano-borghese. Ed è proprio questo confronto, impossibile malgrado l’apertura all’ascolto e l’intercessione dialettica dello scambio verbale (nel film, come spesso succede nel cinema dell’autore, la parola soccombe al silenzio), a innescare la tragedia che trasforma gli ultimi minuti del film, attraverso un cambio di registro spiazzante, in una lugubre trenodia.
A fare di Hamaguchi un grande regista basterebbe la sua capacità di opporre il linguaggio muto delle cose (per riprendere una riflessione del compianto Angelo Guglielmi a proposito del cinema neorealista) alla verbosità inconcludente degli uomini, di seminare indizi onirici e segnali di morte in un unico fotogramma (la carcassa del cerbiatto, il sangue che gocciola dalle frasche), di cambiare toni e metri proprio come se il suo linguaggio fosse più vicino alle accelerazioni improvvise e alle dilatazioni estenuanti della musica, di sottrarre le piccole fratture impercettibili al flusso inarrestabile della vita (capacità che lo accomuna ai grandi maestri del cinema classico giapponese). E anche se non ha la compiutezza dei suoi capolavori (Happy Hour, Drive My Car), Evil Does Not Exist possiede però la stessa capacità di muoversi tra antropologia e metafisica con impalpabile leggerezza.