Concorso

Origin di Ava DuVernay

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“Io non scrivo domande, scrivo risposte” dice con fermezza Isabel Wilkerson. Prima donna afroamericana a vincere il Premio Pulitzer, la scrittrice è la figura che Ava DuVernay sceglie di raccontare in Origin ricostruendo il processo di documentazione e ricerca che sfocerà nel suo libro Caste: The Origins of Our Discontents e che rappresenta non solo una riflessione sul pensiero dominante come genesi delle disuguaglianze sociali ma corrisponde anche a una fase molto dolorosa della vita dell’autrice funestata, in meno di un anno, dalla morte improvvisa dell’amatissimo marito e dalla perdita della madre.

Ecco, il problema principale del film di DuVernay sta non certo negli intenti ma nel risultato. Il film infatti si perde nei mille incunabili di una messa in scena fatta di ralenti, flashback storici, musiche enfatiche e un taglio tanto didattico e didascalico da esaurire ogni forza di problematizzazione in un’enunciazione semplificata e patinata che estremizza la retorica di Selma allontandosi dalla precisione documentaria di 13th. Tenendo il libro, e la vita, di Wilkerson come filo conduttore, DuVernay segue un percorso personale di indagine che, come è tipico del suo metodo, cerca di creare connessioni e relazioni tra elementi solo apparentemente distanti, ma è la retorica della messa in scena a soffocare la complessità del ragionamento.

Il problema infatti con Origin è proprio che la complessità annunciata si ferma in realtà sulla superficie. Seguiamo Isabel che tenta di reagire al dolore personale con la determinazione della ricerca: la vediamo mentre viaggia per il mondo, prima in Germania (dove vuole trovare documenti che supportino la tesi che legherebbe il genocidio ebraico ai principi di legittimazione della schiavitù negli Stati Uniti) e poi in India (dove trova l’approdo della sua riflessione sul sistema della caste come struttura sociale condivisa da tutti i paesi del mondo); la vediamo mentre visita archivi, biblioteche, monumenti cercando documenti, tracce, segni che supportino la sua tesi, mentre incontra studiosi, amici, intellettuali in carne ed ossa ma anche anche mentre si tuffa nei patinati flashback che ricostruiscono esperienze ed esempi di lotta portata avanti da altri intellettuali appartenenti, come lei, a minoranze.

Purtroppo però, la riflessione sulle conseguenze dell’esercizio del potere egemonico come radice e origine delle disuguaglianze sociali rischia così di banalizzarsi in una semplificazione di cui si intuisce il valore divulgativo ma che, per esempio, sembra non includere nel ragionamento alcuna considerazione antropologica, etnografica, culturale e che - nonostante gli esempi ricostruiti rammentino le storie di subalterni che si sono affrancati dalla loro posizione e hanno portato avanti la loro lotta grazie allo studio e alla scolarizzazione - non mette davvero a tema la rilevanza dell’istruzione, dello studio e della comprensione profonda dei processi storici e sociali sembrando piuttosto accontentarsi di un ampolloso invito a usare l’amore condiviso per superare le diseguaglianze.