Concorso

The Substance di Coralie Fargeat

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Mettere in concorso un film come The Substance una volta sarebbe stato impossibile (anzi, una volta sarebbe stata impossibile l’esistenza stessa di un film come The Substance!), mentre oggi, dopo la vittoria nel 2021 di Titane, è sia una consuetudine, sia una furbata. Perché con The Substance l’intenzione palese è quella di creare polarità di giudizi, tra detrattori che s’incazzano (francesi e no) e ammiratori che s’esaltano e alla fine applaudono.

Il film stesso, del resto, insiste sulla natura duplice della sua protagonista, un’ex star invecchiata e licenziata dalla tv (Demi Moore) che aderisce a un programma medico sperimentale e alterna la sua vita, una settimana sì e una no, con la versione giovane di sé stessa (Margaret Qualley) nata dal suo stesso corpo. Nello sdoppiamento delle due donne, Elizabeth e Sue, e nell’identità unica del personaggio c’è ovviamente il trauma personale del personaggio, ma soprattutto lo scontro fra le due opposte anime del cinema, almeno secondo la regista Coralie Fargeat (francese e nel 2017 regista di Revenge, qui all’esordio a Hollywood): quella maschile e quella femminile.

Stilisticamente il film è un omaggio ai maestri (Kubrick, Lynch, Cronenberg, De Palma) allestito come un assalto alla diligenza: una fiaba asettica, senz’aria e senza vita, piatta e moralista, come se la stanza di Twin Peaks fosse stata allestita nei cessi dell’Overlook Hotel. Coralie Fargeat ha il passo della studentessa di cinema (alla Chazelle), assembla rimandi e citazioni per impossessarsi del cinema dei padri (non “de papa”), così da rifare, ribaltare, distruggere, non la storia del cinema, ma lo sguardo che l’ha definita (peccato che ignori Bergman, dove forse un po’ di risposte le avrebbe trovate…).

L’insistenza di The Substance sul corpo femminile (esibito, scrutato, esaltato nelle riprese televisive, nei cartelloni pubblicitari, negli spot…) è una forma uguale e contraria a quella del male gaze, ne è anzi, ovviamente, la sua ripetizione parodica, la sua riappropriazione militante, dove anche la regola di base del campo e controcampo è trasformata in un dispositivo così esibito da mostrarne la piattezza estetica (e se per caso non si capisse, Fargeat alterna anche il primo piano di un corpo femminile marcescente, tipo Shining, a quello di un sodissimo culo maschile…). La questione, però, è come uscire dall’impasse, cosa offrire come soluzione se si pensa che il problema stia nello sguardo (e non nell’idea complessiva, nello stile, per non dire nel talento…).

Il punto di The Substance – che fa ridere solo quando il meccanismo è così evidente da dare allo spettatore il riconoscimento della propria arguzia, mentre per il resto è schiavo della sua ripetitività – è proprio la risultante di tutto il lavoro di ribaltamento, riscrittura, riappropriazione. L’opposizione tra male e female è il Monstro-Elizabeth-Sue, come dice il capitolo finale: un bagno di sangue finale che sembra più narrativamente disperato che catartico o liberatorio; una presunta punizione per lo spettatore allupato; una palingenesi da 2001 (citato esplicitamente in più occasioni) che produce una creatura orrenda (dalle parti di Leviathan di Pan Cosmatos) al posto di un feto e non sa, perché non può, trovare una soluzione alla guerra civile in corso fra sguardi e idee di cinema.

Più che una rivoluzione, quella di The Substance ha tutta l’aria di una rivolta senza idee. Mentre il cuore del cinema, da Cannes a Venezia, dovrebbe gonfiarsi in un coro di vibrante protesta.