Cord Jefferson

American Fiction

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American Fiction è una storia filtrata almeno due volte prima di approdare sullo schermo. Tutto parte dall’esperienza autobiografica dello scrittore Percival Everett e dalla sua amara riflessione diventata un romanzo, Erasure, pubblicato negli Stati Uniti nel 2001, tradotto nel 2007 in Italia con il titolo Cancellazione per Instar e ora praticamente introvabile. Dal libro, Cord Jefferson, giornalista, autore televisivo ed ex direttore di «Gawker», sito gossipparo con redazione a Manhattan, ha poi tratto il suo esordio alla regia. Ma andiamo con ordine. Everett, alla fine del secolo scorso, scopre sugli scaffali di un grande bookstore che il suo volume, Frenzy, sulla figura di un assistente del dio Dioniso, non compare tra i volumi di letteratura e neanche tra quelli di mitologia, ma è stato relegato nel ripiano degli studi afroamericani. Bisogna premettere che Everett risulta particolarmente eccentrico all'interno della cultura tassonomizzante dell’incasellamento, spiazzante almeno quanto il tassista nero appassionato di country del Grande Lebowski, perché è scrittore solo incidentalmente afroamericano nel modo in cui s’intende generalmente un Ta-Nehisi Coates o anche un Colson Whitehead, al punto da essere diventato celebre negli Stati Uniti per una serie di volumi western. Dopo aver riflettuto a lungo sullo stereotipo in cui sono intrappolati gli scrittori neri, sforna il romanzo da cui è tratto American Fiction, che nella sua attualità di film candidato agli Oscar mostra come il pregiudizio non sia per niente migliorato dopo circa un altro quarto di secolo.

Nelle mani di Cord Jefferson, che il film lo ha anche sceneggiato piuttosto fedelmente rispetto al romanzo, attenuando solo un paio di sottointrecci che avrebbero aperto maggiormente un ventaglio di opzioni già piuttosto ampio, la critica allo stereotipo è solo la base di partenza di una storia che si metaforizza in un melodramma familiare sulla perdita della memoria e si postmodernizza in una comunque gradevole ma piuttosto ovvia propaggina metanarrativa che nel romanzo occupava addirittura dieci capitoli. Uno scrittore di mezza età che non pubblica da un po’ perché estraneo alle logiche del mercato, resta bloccato a Boston dalla sua famiglia (non solo) per l’aggravarsi dell’Alzheimer della madre ed è quindi costretto a fare i conti con il suo passato, prima di ritrovarsi intrappolato in quelle stesse logiche editoriali che tanto disprezza.

Everett criticava i luoghi comuni e le gabbie socioculturali, stigmatizzando non solo la cattiva coscienza bianca, che si erge indignata per sentenziare perché incapace di contestualizzare per analizzare, ma anche l’industria culturale e la sua pretesa di incentivare solo i prodotti che rinvigoriscano il modello predefinito, fatto di crudo realismo da ghetto e polizia dal grilletto facile. Il film aggiusta il tiro, consapevole degli anni che lo separano dal libro e ingloba anche accenni di una cancel culture pronta a scagliarsi con accenni integralisti contro le parole con la doppia G (o con la N, nelle versioni italiane), in una scena iniziale che istruisce sul clima nel quale il protagonista lotta per affermare se stesso come scrittore privo di una connotazione che considera avvilente.

Il protagonista, inoltre, a proposito di pregiudizio, ha un nome che più black non si potrebbe: Ellison, come Ralph, l’autore del manifesto antirazzista L’uomo invisibile, e per di più è soprannominato Monk, quasi un brand per chi, come lui, si chiami Thelonious come il leggendario pianista jazz. La sua è una lotta di redenzione per l’oggetto della sua scrittura, anche perché, per origine ed estrazione sociale, egli appartiene alla upper middle class e le storie di padri fannulloni, rapper, crack e violenza della polizia le ha lette soltanto sui giornali. Come i bianchi che si sforzano di perorare quella che erroneamente pensano sia anche la sua causa.

American Fiction ruota tutto intorno al suo sistema di personaggi felicemente caratterizzati, nell’insieme dei quali primeggia Jeffrey Wright, da sempre piuttosto sottoimpiegato e sottostimato, capace qui invece di modulare la complessità di Monk Ellison passando dalla fissità incredula ai quei piccoli accenni nelle espressioni del volto che fanno la grande interpretazione. E cancellando, di fatto, la regia ritmata ma fin troppo ordinaria di Jefferson, che si affranca dall’applicazione su personaggi e dialoghi solo in un indicativo momento, quando la figura sorpresa di Ellison, capitato in una sala gremita in cui si presenta al pubblico quella tipologia di romanzo che lui detesta, è improvvisamente coperta da tutta la folla che si alza per tributare l’entusiastica standing ovation alla pragmatica autrice, rendendo così plastica tutta la sua emarginazione dall’imperante ambiente culturale.

In Ellison, infatti, si realizza il paradosso di essere comunque un emarginato a dispetto della sua origine e della sua appartenenza. Lo è non per disagio sociale, quanto emotivo, a causa della chiusura personale in una torre d’avorio accademica che non gli permette di guardare oltre se stesso e le sue aspirazioni, come ad un certo punto gli fa notare Sintara Golden, la scrittrice che invece oltre se stessa ha guardato e si è adeguata, traendone vantaggio. Ellison è avulso rispetto a tutto ciò che lo circonda, dal contesto culturale, perché non produce, a quello accademico, che glielo rinfaccia e che lo accusa di insensibilità rispetto ai temi etici e razziali. Lo è pure in ambito familiare, all’interno del quale non ha confermato la tradizione medica di tutti gli altri componenti. E sicuramente lo è anche sul piano affettivo, perché incapace di donarsi agli altri rivelando completamente se stesso.

Laddove il pericolo sarebbe stato quello di illustrare un prevedibile percorso di progressiva consapevolezza, il film ha il grande merito di raccontare una riluttante esperienza di travestimento, diventando un esempio riuscito di satira in cui il protagonista compie una serie di atti tutti contrari alla sua volontà, dai fondamentali (lo scrivere un best seller forzandosi in uno slang che non gli appartiene) a quelli più insignificanti, come rimproverare il fratello perché chiama la madre urlando, salvo poi farlo successivamente quando la donna si smarrisce sulla spiaggia.

L’intero film appare così il racconto di uno sforzo titanico per definire una verità valida incontestabilmente e invece inafferrabile, impossibile da verificare perché sempre molteplice, differente rispetto alle prospettive adottate. Una verità intima, sociale e letteraria che non si risolve inequivocabilmente nella logica delle definizioni, ma si sviluppa giorno per giorno nella totale varietà dell’esperienza personale.

D’altronde è una finzione americana, che è lievemente diversa dalla cancellazione dell’identità a cui alludeva il romanzo, perché sperimentata quotidianamente nella ridefinizione del vissuto individuale, a causa del quale ognuno diventa personaggio di un meccanismo inglobante da cui è praticamente impossibile emanciparsi e che forse conviene assecondare.


 

 

 

American Fiction
Stati Uniti, 2023, 117 min
Titolo originale:
id.
Regia:
Cord Jefferson
Sceneggiatura:
Cord Jefferson
Fotografia:
Cristina Dunlap
Montaggio:
Hilda Rasula
Musica:
Laura Karpman
Cast:
Jeffrey Wright, Tracee Ellis Ross, John Ortiz, Erika Alexander, Leslie Uggams, Adam Brody, Keith David, Issa Rae, Sterling K. Brown, Myra Lucretia Taylor
Produzione:
3 Arts Entertainment, MRC Film, Media Rights Capital (MRC), Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), Orion Pictures, T-Street
Distribuzione:
Amazon Prime Video

Il professore e scrittore afroamericano Monk vive un momento di crisi professionale e familiare. Gli editori non vogliono pubblicare il suo ultimo libro ritenendolo "non abbastanza nero", lui allora decide di scrivere sotto pseudonimo un romanzo che diventerà un caso letterario... 

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