Leonardo Di Costanzo

Ariaferma

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Non è un film comune nel panorama italiano Ariaferma. Anzi è proprio una gemma preziosa. E del resto nemmeno Leonardo Di Costanzo è un regista ordinario. Formatosi in Francia, con un passato di documentarista e arrivato alla fiction già più che cinquantenne il regista campano è un autore insolito, quasi laterale e forse ancora da scoprire completamente. Ma questo percorso non comune, così personale e sui generis è in realtà il suo miglior pregio e se Ariaferma è un grande film lo si deve soprattutto a un modo di pensare, filmare e dirigere fuori dagli schemi del cinema di casa nostra.

Soprattutto per come è impostato il lavoro con gli attori. Due interpreti straordinari ma allo stesso tempo ingombranti come Toni Servillo e Silvio Orlando, in scena insieme per quasi tutto il film, sono una responsabilità non semplice da gestire, specialmente per chi come Di Costanzo arriva dal cinema documentario. Invece, grazie anche una scrittura intelligente e calibrata (del regista insieme con Bruno Oliviero e Valia Santella), la recitazione fila via liscia, senza istrionismi o esasperazioni fino a diventare uno dei maggiori punti di forza del film.

Ariaferma è ambientato dentro il carcere immaginario di Mortara, in un luogo imprecisato del meridione. Stanno per dismetterlo quel carcere e restano da trasferire solo pochi detenuti. Gli uffici stanno chiudendo, i servizi – comprese le visite parenti, i lavori, le attività per i carcerati e la cucina – soppressi e quasi tutti i reparti sono inattivi. A causa di alcuni problemi dell’ultimo minuto però l’ordine di trasferimento per 12 detenuti viene sospeso a tempo indeterminato e, fino a che la situazione non si risolve, a un piccolo reparto di ufficiali e agenti della polizia penitenziaria con a capo l’ispettore Gaetano Gargiulo (Servillo), viene lasciato il compito della sorveglianza.

Nella situazione emergenziale e aleatoria che si viene a creare la tensione fra guardie e prigionieri diventa rovente e il rischio che si scateni una rivolta – con il passare delle ore – sempre più concreto. Ben presto Gargiulo capisce che il temperamento più o meno conciliante dei detenuti dipende dall’umore di Don Carmine Lagioia (Orlando), un uomo carismatico e rispettato in grado di mantenere o far crollare i fragili equilibri su cui si regge la convivenza. Il rapporto fra i due uomini diventa quindi cruciale per le sorti di tutti.

Rasenta il genere Di Costanzo, non tanto del filone carcerario più tipico, ma del thriller e del poliziesco – a tratti viene in mente Distretto 13 – Le brigate della morte di Carpenter – soprattutto nel descrivere il crescendo della tensione. Senza mai perdere il controllo, con una regia in levare e giocata tutta sulla sottrazione, in cui ogni gesto, parola, sguardo assumono un significato doppio (o triplo) rispetto a quello più immediato. In questo racconto sospeso, dentro un tempo e uno spazio quasi irreali – ad un certo punto arriva un black out che ammanta tutto di un’atmosfera quasi fantastica – a emergere sono temi universali della socialità, della convivenza e dell’agire collettivo che, a causa della struttura panottica del carcere, risultano amplificati e diventano macroscopici.

Ed è questo a rendere Ariaferma un film profondamente umanista, capace di usare la metafora del carcere per ragionare sul senso collettivo dell’isolamento. Non solo quello dovuto alla pandemia cui viene facile pensare, ma in scala più ampia all’ingabbiamento e alla reclusione come sentimenti universali. «Non ho mai fatto male a nessuno. Non ho debiti di nessun tipo. E questo mi dà una serenità che tu non conosci. Io e te in comune non abbiamo niente» dice Gargiulo a Lagioia a un certo punto. Sembra quasi non crederci nemmeno lui, di provare a convincere per primo se stesso. Le cose che lo accomunano al suo avversario – e che nel film pian piano vengono fuori – sono invece molte. Non sul tema della colpa o della responsabilità, ma su quello della libertà. E Gargiulo lo sa, mentre vive questo suo personale “Deserto dei Tartari”, che il carcere è carcere per tutti. Anche se non lo può ammettere. E sa anche che in prigione la compassione, l’affetto, l’umana pietà per il prossimo e l’amicizia sono sentimenti tutt’altro che estranei. Anche se a far loro da schermo sono diffidenza, violenza e paura.

Perché come ha detto il regista stesso Ariaferma è prima di tutto «un film sull’assurdità del carcere». Come istituzione, come regime di controllo e di disciplina. E sono le immagini a dircelo, ancora prima del racconto, dei personaggi o dei dialoghi. Con un’alternanza di inquadrature fra l’interno e l’esterno, esplorando il vuoto e l’abbandono delle strutture della prigione e osservando per mezzo delle camere di sorveglianza, Di Costanzo crea un’architettura emozionale, che sembra vivere e respirare insieme agli individui che la abitano. E inserita in uno spazio decadente che come la carcassa di una balena continua a imprigionare i suoi occupanti anche dopo la propria morte.

Una riflessione sulle strategie di potere e sulle politiche di quella che Foucault chiama “governamentalità” (e cioè il campo d’azione che un governo ha nel condizionare e dirigere la condotta dei propri cittadini), che raramente abbiamo visto così lucida e facile da comprendere in un film italiano. Ma, come si diceva, Ariaferma non è un’opera che si vede spesso nel cinema di casa nostra. Teniamocela stretta.


 

Ariaferma
Italia, Svizzera, Francia, 2021, 117'
Titolo originale:
Ariaferma
Regia:
Leonardo Di Costanzo
Sceneggiatura:
Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella
Fotografia:
Luca Bigazzi
Montaggio:
Carlotta Cristiani
Musica:
Pasquale Scialò
Cast:
Toni Servillo, SIlvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco, Pietro Giuliano, Nicola Sechi, Leonardo Capuano, Antonio Buíl, Giovanni Vastarella, Francesca Ventriglia
Produzione:
Tempesta, Amka Films Productions, Rai CInema, RSI-Radiotelevisione Svizzera
Distribuzione:
Vision Distribution

Un vecchio carcere ottocentesco, situato in una zona impervia e imprecisata del territorio italiano, è in dismissione. Per problemi burocratici i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti con pochi agenti rimangono in attesa di nuove destinazioni. In un’atmosfera sospesa, le regole di separazione si allentano e tra gli uomini rimasti si intravedono nuove forme di relazioni.

 

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