Francesco Montagner

Brotherhood

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«Si può affermare che ci sono pochi paesi che hanno una fede così forte, caratteri così sublimi, una così grande tenerezza e tanta passione, tanta profondità di sentimenti, tanta incrollabile fede, tanta sete di giustizia. Ma sotto tutto questo, nelle profondità dense, si celano una moltitudine di tifoni ancora non scatenati, ammassati, che maturano e attendono la loro ora» 
(Ivo Andrić, Racconti di Sarajevo).

Questa frase è spesso citata da Francesco Montagner, regista e sceneggiatore (insieme ad Alessandro Padovani) di Brotherhood, vincitore della sezione Cineasti del presente allo scorso festival di Locarno, come punto d'ingresso del suo film ambientato in Bosnia, paese descritto nel suo aspetto rurale e tradizionale che nasconde, però, un lato moderno, un senso di apertura che va oltre gli strascichi, pesanti, della guerra. Paese che ha incuriosito il regista dopo la visione di un servizio televisivo sui foreign fighters bosniaci in Iraq e in Siria, e nella fattispecie su un uomo che, rimpatriato dalla Siria dove era andato a fare proselitismo islamico, ha scontato due anni di carcere per terrorismo. Montagner è andato in Bosnia, ha conosciuto i suoi tre figli adolescenti e ha deciso di filmarli nei due anni di assenza del padre, che partendo ha assegnato loro compiti precisi. E che, al rientro, li ha valutati per quello che hanno, o non hanno, fatto.

Un padre severo quindi, che dispone e che giudica sulla base di una scala di valori ben precisa, quella dell’Islam radicale; e dei ragazzi che sembrano i figli delle famiglie aristocratiche d’altri tempi, ognuno dei quali aveva un destino definito fin dall’infanzia, chi ereditando la terra e i possedimenti paterni, chi errando e diventando cavaliere, chi abbracciando la vita monastica o comunque religiosa. Ma che sembrano anche personaggi delle fiabe a cui il padre, o un’altra figura d’autorità, assegna compiti precisi; o i servi della parabola dei talenti o, per restare sul Vangelo, i due figli della parabola del figliol prodigo, giudicati in modo diverso per come sono o non sono stati fedeli ai dettami paterni. Insomma un padre, tre figli nell’età per antonomasia della formazione, e dei compiti assegnati che riguardano, innanzitutto, il mantenimento della casa e del gregge di pecore, fonte di sostentamento della famiglia. Quindi della tradizione.

La presenza del padre pesa anche nella sua assenza e i ragazzi si uniformano alle direttive, ma qualcosa scricchiola soprattutto nel più piccolo, che dovrebbe completare al meglio il percorso di studi ma che fa in questo molta fatica così come stenta a stare nel mondo di appartenenza, fatto di pecore e di pascolo, di preghiere e di orizzonti chiusi, sia pure spettacolari. La natura che cambia con le stagioni, i paesaggi verdeggianti della valle piena di alberi da frutto, anche se punteggiata di mine (in alcuni punti) e di ruderi lasciati dalla guerra. Lui fa tutto, segue il fratello di mezzo con il pascolo e le preghiere e impara da lui la lotta e il gioco della guerra, ma la scuola (che l’altro ha interrotto) gli fornisce nonostante tutto un’apertura e lo smartphone, unico oggetto “estraneo” al tessuto socioculturale della valle, irrompe con i videogiochi e con i social a distrarlo dai suoi compiti, anzi dai suoi doveri.

Il fratello di mezzo anche è distratto, dalle ragazze sui social più che altro, ma alla fine sceglie la strada del padre, lo giustifica e asseconda sempre, anche se poi sarà l’unico, al rientro del genitore, a venire rimproverato per aver perso delle pecore e sfogherà la sua rabbia, in una scena intensa quanto straziante, sugli alberi del bosco vicino a casa. Il figlio più grande nel frattempo si è emancipato, ha trovato lavoro e casa (e ragazza) lontano dalla valle, ma al rientro del padre è anche lui lì, a riprendere il suo ruolo. Con la sola speranza, avallata questa sì dal genitore, di andarsene in Germania per guadagnare di più. È il figlio piccolo, si diceva, a maturare man mano lo scontento per quel genere di vita, senza mai manifestarlo; ma il suo primo piano nel prefinale, e la sua corsa nel finale, fanno presagire una rivolta, una speranza; la speranza del cambiamento.

Un film quindi che assomma più elementi, la storia di formazione di tre ragazzi, reali, in un contesto rurale molto legato alla tradizione anche religiosa di un paese scosso di recente da un conflitto sanguinoso, e un discorso simbolico, archetipico su ciò che la figura paterna rappresenta, autorità, potere, ideologia ma anche magari amore, e valori, e vicinanza. Un discorso dunque universale, che riguarda la formazione dell’individuo in questo senso preciso: che tipo di uomo, di maschio voglio, o posso, diventare? E che riguarda anche i condizionamenti dell’ambiente, perché è facile parlare di scelta in una situazione in cui si ha effettivamente la possibilità di scegliere, meno facile in un contesto come quello del film, in cui il modello paterno si trova ad essere l’unico, o quasi, riferimento possibile. Nello sguardo del figlio più piccolo del prefinale troviamo infatti insofferenza, sì, ma anche remissività e ci chiediamo, riuscirà a fare davvero un passo per andare oltre, come fa supporre la corsa finale? È possibile, quella corsa, o in un contesto di quel tipo è solo illusione?  

Ma l’interesse del film non sta solo nei suoi temi e nelle riflessioni che suscitano; sta anche nell’essere un documentario narrativo, quindi un documentario che, come quelli per esempio di Minervini, contempla lo sviluppo di una storia, e un documentario di osservazione, osservazione dell’ambiente e dei protagonisti che si dipana nel tempo, ragion per cui il percorso del film ha occupato cinque anni, con Montagner che  mensilmente andava in Bosnia a girare e al rientro riprendeva con Padovani la scrittura, e la adattava a quello che era emerso dal lavoro con i protagonisti. C’è cioè una sceneggiatura di partenza, una scrittura; ma questa si modella man mano che la realtà cambia, offrendo nuovi spunti e prospettive.

Come per Ancarani con Atlantide. In questo tempo i tre ragazzi sono cresciuti davvero, come l’attore protagonista di Boyhood di Linklater, e hanno partecipato alle riprese in tutti i sensi, oggetti e soggetti al tempo stesso, entrando in una relazione di fiducia con il regista che li ha osservati senza giudicarli, nella loro oscillazione, alla fine, tra radicalismo/ tradizione e capitalismo/ modernità. La stessa della loro terra, per tornare all’inizio. E che ha ripreso tutto questo in maniera spettacolare, specie sul piano della fotografia, per cui l’opera, filosoficamente complessa pur nella sua semplicità, è un piacere per gli occhi e per il cuore. Da assaporare piano.


 

Brotherhood
Italia, Repubblica Ceca, 2021, 90'
Titolo originale:
Brotherhood
Regia:
Francesco Montagner
Sceneggiatura:
Francesco Montagner, Alessandro Padovani
Fotografia:
Prokop Soucek
Montaggio:
Valentina Cicogna, Klara Tasovska
Cast:
Jabir Delic, Usama Delic, Uzeir Delic, Ibro Delic
Produzione:
Nutprodukce, Nefertiti Film, Rai CInema, Al Jazeera Balkans, Famu
Distribuzione:
Nefertiti Film

Jabir, Usama e Uzeir, sono tre giovani fratelli bosniaci, nati in una famiglia di pastori. Sono cresciuti all'ombra del padre, Ibrahim, un predicatore islamista severo e radicale.
Quando Ibrahim viene condannato a due anni di carcere per terrorismo, i tre fratelli vengono improvvisamente lasciati soli. La temporanea sospensione degli ordini e dei comandamenti del padre cambia drasticamente la loro vita.

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