Olivia Wilde

Don't Worry Darling

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Ci sono film che dicono tutto già nelle primissime sequenze e Don’t Worry Darling è sicuramente uno di questi. Per capirci, non mi sto riferendo alla modalità d’ingresso con cui la narrazione conduce lo spettatore all’universo della finzione, fornendogli in nuce gli elementi narrativi e simbolici che saranno poi sviluppati adeguatamente nel prosieguo dell’intreccio, così come fanno molti dei lavori pienamente riusciti; in realtà intendo che il film di Olivia Wilde è proprio tutto lì, fermo all’estetica squillante e luminosa delle prime scene. Dopo c’è proprio poco, nonostante gli sforzi e un campionario di temi buono per almeno altri tre film; talmente poco, che risulta complicato non lasciarsi andare alla deriva e osservare le dinamiche interne degli attori (e non dei personaggi) sul set (e non nel racconto), protagonisti di tutto il corredo di polemiche e gossip cafone che ha accompagnato la presentazione del film. (Per quei pochi eremiti che se li fossero persi: Olivia Wilde s’innamora di Harry Stiles, scelto dopo la defezione variamente interpretata di Shia LaBeouf; per questo motivo lascia il marito, Jason “Ted Lasso” Sudeikis, il quale, annusato l’inghippo, si presenta varie volte sul set con i due figli per far affiorare nella ex moglie i sensi di colpa. Florence Pugh, infastidita dalla – secondo lei, ma in tutta onestà non ci sentiamo di contestarla – scarsa attenzione di Wilde alle vicende del film a scapito di quelle sentimentali, si chiude in un guscio di risentimento fino a giungere – addirittura! – all’oltraggio supremo di non gratificare di like i post della regista. E infine, la storia del presunto sputo di Harry Stiles a Chris Pine durante la prima alla Mostra di Venezia: un côté piuttosto movimentato, non c’è che dire).

Insieme a Katie Silberman (ancora, dopo l’urticante esordio La rivincita delle sfigate, comunque piuttosto apprezzato dalla critica) e ai fratelli Carey e Shane Van Dyke (nipoti di Dick, lo spazzacamino di Mary Poppins, per amore di sintesi), Olivia Wilde cerca di tratteggiare uno scenario distopico per infarcire il suo discorso di temi evergreen, al cui centro c’è la reazione maschile al contemporaneo ribaltamento dei ruoli, visto come un pericolo alla salvaguardia di una società patriarcale. Per fare questo, sceglie una protagonista, Alice, interpretata da Florence Pugh, forse unica scelta azzeccata del cast, probabilmente per la fama ormai acquisita di personaggio calato in ambienti da incubo (Lady Macbeth, Midsommar), e le assegna il compito di fare da tramite identitario con lo spettatore per nutrire dubbi e poi scoprire cosa si celi dietro quel mondo perfetto e zuccheroso, sospeso in perenni anni Cinquanta pur trovandosi in mezzo al deserto, nel quale tutti sono soddisfatti e solidali e dove le scansioni del tempo si avvicendano secondo gli ideali ritmi circadiani dell’impeto lavorativo, delle faccende domestiche e dell’appagamento sessuale.

Uno dei problemi, con ogni probabilità neanche il più vistoso, è che Florence Pugh, malgrado la sua onesta interpretazione capace di transitare con una certa credibilità dall’ebete sorriso beato alla progressiva percezione dell’incubo che sta vivendo, sconta le incoerenze di una narrazione che a un certo punto perde la matassa di un filo ingrossatosi sempre di più a causa dei temi buttati dentro da una sceneggiatura carente (e forse presuntuosa) con lo scopo di apparire tremendamente à la page. E così il pubblico, che attraverso Alice avrebbe dovuto scoprire ciò che si celava in azioni inquietantemente sempre uguali a se stesse, comprende tutto abbondantemente in anticipo, perché, come dicevamo in precedenza, “è tutto lì” e il tempo restante lo trascorre a chiedersi quando se ne accorgerà anche lei, finalmente, vedendo implodere qualunque costruzione della tensione la regia e la sceneggiatura si fossero illuse di aver perseguito fino a quel momento.

Non sempre palesare tanti riferimenti è garanzia di riuscita dell’operazione, malgrado il postmoderno ci abbia fatto credere per anni il contrario, lasciando tuttavia sul campo solo le macerie a uso dei meno attrezzati per applicarne la lezione. Don’t Worry Darling dà sempre la netta impressione di vedere qualcosa che si è già visto prima, come se tutto procedesse saltando da una suggestione all’altra. Derivativo, certo, anche se qua l’impressione è che tutto appaia come il frutto di ascendenti mal elaborati che miscelano l’universo circoscritto di The Truman Show, la realtà virtuale di Matrix e quella onirica di Inception (come ammesso dalla stessa Wilde in diverse dichiarazioni). Se poi, a vario titolo e nell’impeto ipertrofico di aggiungere temi quasi con la fregola di esaurire in un colpo solo tutti gli argomenti ruotanti intorno alla rivendicazione di genere, questi stessi ascendenti si legano con un corredo di immagini già note ogni qualvolta si voglia illustrare una vita suburbana idillica, sospesa in un’epoca senza tempo che però ha sempre l’iconografia scintillante e laccata degli anni Cinquanta, allora l’impressione, del tutto straniante, è di guardare Don’t Worry Darling come se fosse un film antologico sulle pellicole che lo hanno alimentato, da La fabbrica delle mogli a Il postino suona sempre due volte, Rafelson’s version (nella scena del sesso sul tavolo).

Per rincarare la dose, si diceva anche delle carenze della sceneggiatura, soprattutto per alcuni buchi logici e concettuali che aprono una serie di domande che non ottengono una risposta convincente pur sforzandosi di trovare una giustificazione (perifrasando per non incorrere in spoiler: a che pro fuggire quando ci si rende conto che una realtà non è tale, per esempio?). Appaiono critici inoltre alcuni snodi affrettati, quasi fosse giunto improvvisamente il tempo entro il quale porre termine al racconto, e l’allestimento globale, come la scelta di un melting pot forzato, che poco si giustifica in un universo distopico dalla visione patriarcale assolutamente reazionaria ma molto risponde ai criteri di inclusione odierna.

[Attenzione, perché quello che segue, se fosse vero per davvero, sarebbe spoiler, per cui non andate oltre]

In questo delirio vorticoso condito da superfici tronfie ma vacue, déjà-vu e incongruenze, la mente dello spettatore può giocare brutti scherzi. In uno dei flashback rivelatori, all’interno di una corsia dell’ospedale in cui lavorava Alice, ho pensato per un attimo a un intrigante cortocircuito fra reale e virtuale, vedendo uno degli inservienti intento a spazzare indossare la stessa tuta rossa degli sgherri della multinazionale Victory nel deserto suburbano simil ’50s. Ma l’idea si è stemperata subito per una più comoda ipotesi allucinatoria piuttosto che per il colpo di genio incompreso giunto in coda a rivalutare gran parte di quanto avevo visto e patito fino a quell’istante.


 

Don't Worry Darling
Usa, 2022, 123'
Titolo originale:
Don't Worry Darling
Regia:
Olivia Wilde
Sceneggiatura:
Katie Silberman
Fotografia:
Matthew Libatique
Musica:
John Powell, Randall Poster
Cast:
Florence Pugh, Harry Styles, Chris Pine, Olivia Wilde, KiKi Layne, Gemma Chan
Produzione:
New Line Cinema, Vertigo Entertainment
Distribuzione:
Warner Bros.

Alice e Jack vivono nella comunità idealizzata di Victory, città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano al progetto top-secret Victory e le loro famiglie. L’ottimismo della società degli anni Cinquanta, propugnato dall’amministratore delegato Frank caratterizza ogni aspetto della vita quotidiana. Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, le loro mogli – tra cui l’elegante compagna di Frank, Shelley – possono trascorrere il loro tempo godendosi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Ma quando iniziano ad apparire delle crepe nella loro vita idilliaca, mostrando sprazzi di qualcosa di molto più sinistro che si nasconde sotto la facciata attraente, Alice non può fare a meno di chiedersi esattamente cosa stiano facendo a Victory...

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