Duncan Jones

Mute

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Se Moon era il film (riuscito) di un ammiratore di Kubrick (2001), Tarkovskij (Solaris) e Ridley Scott (Alien), che ci riportava nell'empireo della “fantascienza filosofica”, Mute sembra il tentativo (fallimentare) di un fan di Blade Runner che aspira all'inferno dell'hard boiled (cyber) e ai territori sofisticati del romanticismo noir, ma non sa cosa farsene del materiale a disposizione.

Se nel 2009 Duncan Jones, figlio di David Bowie, ci aveva sorpreso per il coraggio e un talento che sembrava all'altezza dell'ambizione, nove anni dopo (e un paio di film, Source Code e Warcraft-L'inizio) ci sorprende in negativo con questo confusionario e sbilenco “sequel spirituale” (parole sue).

Il film racconto la storia di Leo, un barista muto di origine amish, «un fottuto tecno-ritardato», sopravvissuto a un incidente da ragazzo, ma obbligato a convivere col suo handicap (i genitori hanno rifiutato qualsiasi intervento, lui rimane fedele alle sue origini). Innamorato di una donna misteriosa, Naadirah, quando lei sparisce, finisce per improvvisarsi detective, incrociando il cammino di un violento chirurgo ex militare che lavora per la mafia e del suo amico-complice dai gusti sessuali criminali.

Tutto questo ambientato in una Berlino del 2050 che ricorda inevitabilmente la Los Angeles di Ridley Scott e che si diverte a esplorare il futuro con lo sguardo (cinefilo) rivolto all'indietro, tra bowling, diner, vecchi videogiochi e bar con le spogliarelliste-robot. Ma anche cattivi transgender, dottori torturatori, sadomasochismo robotico, pedofilia... Mentre si attende invano che porti qualche frutto sostanzioso (narrativo, simbolico, metaforico) l'ambientazione tedesca popolata di “sporchi comunisti” (il medico militare sogna di tornare negli States), o l'allusione ai soldati disertori, o il passatismo del barista amish, che rifiuta la tecnologia e intaglia il legno, salvo poi subire la “violenza guaritrice” della (post-post)modernità.

Lo si potrebbe anche guardare come un curioso (intellettuale) tentativo di b-movie o di (s)cult istantaneo, di quelli nati esagerati, con l'appeal dell'artigianato creativo. Il problema è che non c'è una sola idea visiva che sorprenda, non c'è un dialogo che non suoni stonato, non c'è un'emozione che arrivi davvero o una battuta che faccia ridere (e il sensazionalismo non è mai sensazionale). Ammesso e non concesso che la recitazione sopra le righe di tutto il cast fosse voluta, rimane il fatto che non ha senso un film visionario a cui manchi una visione, che punta sulla fascinazione epidermica ma risulta privo di fascino.

È significativo il fatto che il film, nel suo tortuoso cammino (la prima idea è nata quindici anni fa), sia poi approdato su Netflix. Lo abbiamo già scritto in altre occasioni (parlando di Okja, ad esempio): siano benvenuti gli sforzi produttivi e l'ospitalità ecumenica della piattaforma digitale, ma gli auguriamo di non diventare un refugium peccatorum.

Mute
Gb, Germania, 2018, 126'
Titolo originale:
Mute
Regia:
Duncan Jones
Sceneggiatura:
Duncan Jones, Michael Robert Johnson
Fotografia:
Gary Shaw
Montaggio:
Barrett Heathcote, Laura Jennings
Musica:
Clint Mansell
Cast:
Alexander Skarsgård, Justin Theroux, Levi Eisenblätter, Paul Rudd, Seyneb Saleh
Produzione:
Liberty Films UK, Studio Babelsberg
Distribuzione:
Netflix

A Berlino, in un futuro non troppo lontano, vive Leo, un uomo muto che ha perso la capacità di parlare a causa di un incidente durante l'infanzia. La sola cosa importante della sua vita è il rapporto con la bellissima fidanzata Naadirah, e quando questa scompare senza lasciare traccia Leo si mette alla sua ricerca. Durante il suo viaggio, si troverà ad affrontare due criminali incalliti.

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