Dario Argento

Occhiali neri

film review top image

In una scena notturna di Il gatto a nove code, Carlo Giordani (James Franciscus) e Franco Arnò (Karl Malden) si recano al cimitero alla cripta della famiglia Merusi. Arnò, cieco, rimane di guardia sulla soglia, mentre Giordani con un cacciavite apre la bara di Bianca Merusi, non ancora coperta con la lapide. Poco dopo, Arnò è aggredito, la porta della cripta viene chiusa all’improvviso con un tonfo, la torcia si scarica, Giordani è nel buio pieno. Il film si interrompe. Non c’è musica. Il formato cinemascope si tinge di nero denso. Lo schermo si spegne. Era giovane, Dario Argento, era al secondo film, eppure sembrava determinare già allora un’idea visuale. Lui che più e più volte avrebbe fatto del colore aggressivo un motivo, un mantra, in Il gatto a nove code apriva una voragine tonale nera che trascinava in sé soggetto e racconto, tempo e spazio.

Malgrado i rossi profondissimi, i bianchi abbaglianti, i blu colmi e i verdi accesi, il vero colore argentiano sarebbe sempre stato il nero. A dispetto di sentimenti e fiabe, di omicidi e sangue, di Technicolor e tinte intense. Ricordate il contorno-occhi in macro di Profondo rosso? Una matita nerissima. Però non c’entra il genere d’appartenenza: c’entra una precisa contingenza estetica che fa di Argento uno dei più perspicaci geometri del cinema italiano. L’Antonioni dell’horror. Quello cioè che prende le misure dei propri luoghi (del cuore) al fine di capire se stesso e, nel migliore dei casi, anche un pochino il mondo. Le architetture argentiane nascono per un preciso disegno autoriale, che il più delle volte è istintivo.

Non credo sia casuale se Occhiali neri si apre con un omaggio (voluto) a L’eclisse. E non sarà casuale se questo film si chiama così, Occhiali neri, se la protagonista è cieca e se ancora una volta è il buio a determinare l’identità non tanto dell’opera quanto del suo autore. Contate le dissolvenze in nero: sono tante, tali da diventarne la lingua, la sintassi. Perché il nero, per Argento, inteso quale gradazione spaziale, ostacolo alla visione e alla definizione delle cose, schermo, inteso come cinema, implica un dovere tutto personale, oggi più faticoso che in passato (figuriamoci nel 1971, quando Argento aveva 31 anni) ma anche più importante: il dovere di perimetrare un luogo che è il proprio immaginario, e che è il luogo da occupare – nella vita, nel mercato cinematografico, nella produzione delle immagini - per portare rispetto a se stessi.

È facile allora pensare a una proiezione: Diana, interpretata da Ilenia Pastorelli, è Argento. Diana, squillo di lusso e solitaria, che fugge da un serial killer di donne, che perde la vista a causa di un incidente in auto, che stringe amicizia con un bambino di origini cinesi, che su suggerimento di un’istruttrice (Asia Argento) si affida a un cane guida, un pastore tedesco femmina di nome Nerea, e che infine resta sola con l’animale, la sua unica amica; Diana, che raccoglie in sé i tratti e le traiettorie di tutte le protagoniste femminili argentiane (nella scena conclusiva all’aeroporto ha le forme, la mise e lo stile di Veronica Lario in Tenebre), che si adegua a vivere nel nero, e in esso e a partire da esso cambia priorità e sensibilità; Diana, la sopravvissuta, è Dario, che adesso non deve dimostrare niente a nessuno, tranne che a sé. Diana è Dario che oggi sceglie l’assoluta autorialità, in proprio e senza lusingare i fan o la critica, non come arma di difesa ma come equilibrio psicologico. Occhiali neri è la sua ultima terapia possibile. Senza mostri e senza orrori: nessun esorcismo di paure congenite; in questo nero Argento decide di stare, è il suo unico amico. Una regione della psiche, che per il regista – che prima di tutto è un uomo – è una regione sentimentale.

Occhiali neri è dunque il percorso a tentoni alla scoperta e all’accettazione del sé, compiuto da Argento attraverso ciò che conosce meglio di chiunque altro, il proprio cinema. È perciò un film che ritorna, riregistra, ridistingue, riammette. E attraverso Tenebre, con la stessa osservazione geografica, la stessa sospensione mappale, la stessa distanza tra soggetto e spazio, torna a Phenomena, cioè allo stesso coinvolgimento della natura, allo stesso allontanamento tra soggetto e realtà sociale, alla stessa selvatichezza non doma. Argento però non si omaggia, non si cita: si tratta al contrario di un rimpatrio umile e triste, con la coscienza pulita e “al posto giusto”, e con la consapevolezza terminale di avere dato tutto e di essere arrivato al capolinea. Nerea è infine l’unica amica di Diana; Occhiali neri è, in ultimo, il trattamento a cui Dario Argento si sottopone. Lo spettatore e finanche il fan possono scegliere il disinteresse e di non ascoltare, ma farebbero un torto all’autore – qui più autore che mai, remoto, unico, prima voce singolare – se decidessero di non credere, di non crederci, alla ricerca assurda di immagini e di identità lontane (lo dice bene Giacomo Calzoni nella sua recensione su Sentieri selvaggi). Non ci sono citazioni o esibizioni muscolari che siano in grado di corrispondere al bisogno di un privato per troppo tempo messo in mostra. Lasciamo che Dario Argento rientri a casa.


 

Occhiali neri
Italia, Francia, 2022, 90'
Regia:
Dario Argento
Sceneggiatura:
Dario Argento, Franco Ferrini
Fotografia:
Matteo Cocco
Montaggio:
Flora Volpelière
Musica:
Louis Siciliano
Cast:
Ilenia Pastorelli, Andrea Zhang, Asia Argento, Maria Rosaria Russo, Guglielmo Favilla, Paola Sambo Andrea Gherpelli, Tiffany Zhou, Gennaro Iaccarino, Gianluca Gugliarelli, Gladys Robles, Cristiano Simone Iannone, Mario Scerbo, Ivan Alovisio
Produzione:
Urania Pictures e Getaway Films in collaborazione con Rai Cinema e Cine+
Distribuzione:
Vision Distribution

Roma. L’eclissi oscura il Sole in una torrida giornata d’estate. È il presagio del buio che avvolge Diana quando un serial killer la sceglie come preda. La giovane escort, per sfuggire al suo aggressore, va a schiantarsi contro una macchina, perdendo la vista. Dallo choc Diana riemerge decisa a combattere per la sua sopravvivenza, ma non è più sola. A difenderla e a vedere per lei adesso ci sono Nerea, il suo cane lupo tedesco e il piccolo Chin, sopravvissuto all’incidente. Il bambino cinese con i suoi grandi occhi, la voce dolce dall’accento straniero, il carattere di un ometto indipendente e indifeso allo stesso tempo, la accompagnerà nella fuga. Ossessionati dal sangue che li circonda, saranno uniti dalla paura e dalla disperata ricerca di una via di scampo, perché l’assassino non vuole rinunciare alle sue prede. Chi si salverà?

poster