Sunita (Kaushalya Fernando) percorre quotidianamente in motorino la distanza che la separa dal suo domicilio in periferia, una casa angusta che divide con il figlio adolescente (Julian Wijesekara), al luogo di lavoro dove assiste una signora malata e capricciosa (Nella Pozzerle). È originaria dello Sri Lanka e, come molti suoi connazionali, ha un destino di migrazione forzata verso l’Occidente iniziato a metà degli anni Ottanta a causa dei conflitti interni tra la maggioranza cingalese e la minoranza tamil. Le sue giornate passano tutte uguali: fatiche fisiche e gesti di cura reiterati verso quella donna che la chiama ininterrottamente, desiderosa delle sue attenzioni. Le fa il bagno, la mette a letto, le prepara da mangiare, la imbocca, la porta fuori, la ascolta.
Appena può torna a casa per occuparsi del figlio, che mal sopporta la sua presenza. Un senso di colpa la pervade poiché è stata costretta ad abbondonare il suo bambino ancora neonato, per venire a lavorare come badante in Italia. È un rapporto madre-figlio difficile, tra loro regna un silenzio costante. Le poche parole che si rivolgono sono spigolose, dure. Sono come deflagrazioni che evidenziano il divario linguistico, emotivo e culturale del loro legame. Si osservano a distanza senza riuscire a comprendersi sino in fondo. Lei si esprime in italiano solo quando è costretta, una lingua che rappresenta un luogo che considera solo di passaggio. Lui capisce il cingalese, ma risponde alle attenzioni della madre con un atteggiamento arrogante e strafottente, preferendo la compagnia dei suoi amici veneti. Insieme saltano scuola e si divertono a ciondolare per bar e panchine o facendo scorribande nei boschi. Esprime tutto il rifiuto nei confronti della sua eredità culturale, quando insieme ai suoi amici maltrattano un loro coetaneo di origini srilankese, che si era introdotto nel capannone abbandonato, loro quartiere generale.
Ed è proprio in quel rifugio che il ragazzo porterà la sua vicina di casa, alla quale offrirà i risparmi sottratti alla madre in cambio di quel contatto materno, quel calore primario negatogli. Lei gli offrirà il suo generoso seno per calmare la sua rabbia, in un tenero abbraccio. Sunita è un’anima divisa tra due spazi e due affetti. Le case frequentate simboleggiano due luoghi geografici, due mondi: la sua terra di origine e le tradizioni alle quali rimane profondamente legata, tanto da ricorrere a un rito contro il malocchio per salvare il ragazzo da una contaminazione con i modelli locali, e quella “adottiva” piena di simboli religiosi che non le appartengono, che le permette di far fronte alle difficoltà economiche e dar da mangiare al figlio. Un paese che non riconosce più agli anziani il loro importante ruolo sociale; quello di tramandare alle giovani generazioni le loro storie e la loro sapienza. Peso difficile da gestire, si affida la loro cura agli immigrati. Solitudine e abbandono sono delle condizioni che Sunita ha in comune con la donna che accudisce; uno dei figli di quest’ultima si manifesta solo con telefonate o facendo trovare la spesa in cucina.
Suranga Katugampala fotografa in modo secco ed essenziale una storia di vita monotona e ripetitiva, senza nessuna concessione al melodramma, restituendoci in tutto il suo divenire quel processo d’ibridazione culturale che è in atto in Italia. Ci mostra da una parte una comunità, quella cingalese, che è cittadina di diritto per il lavoro che svolge, così come tutte le altre comunità straniere presenti sul territorio, ma che rimangono invisibili e non riconosciute. Mentre, dall’altra parte, ci sono le istituzioni che ragionano ancora su vecchi modelli comunitari fatti di muri, visti e confini, incapaci di cogliere in questo processo irreversibile d’integrazione una ricchezza, una possibilità della quale possa beneficiare l’intera collettività.
Il regista italo-srilankese al suo primo lungometraggio, crea un intreccio narrativo che ruota tutto attorno ai suoi tre personaggi principali: il figlio, la madre e la donna anziana. Le ambientazioni periferiche e la quasi assenza di dialoghi, fanno pensare a un certo cinema asiatico, e in particolare all’universo di Tsai Ming-liang, dove sono i non detti, i sentimenti inespressi, i gesti e le azioni a far evolvere il racconto. Ma questa volta “l’esotismo” è molto vicino, è parte di noi.
Il film è stato realizzato con il contributo del Premio Mutti – AMM dedicato a registi migranti residenti in Italia ed è distribuito dalla Gina Film (che in precedenza aveva prodotto e distribuito Io sto con la sposa di A. Agugliaro, G. del Grande, K. Soliman al Nassiry), grazie all’appoggio di esercenti indipendenti che stanno accogliendo il film nelle proprie sale in questi giorni.
Lì Sunita, una donna srilankese di mezz'età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una relazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un'ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un paese al quale non vuole appartenere.