Peter Greenaway

Que viva Greenaway!

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I film di Greenaway sono l'equivalente di un volume fotografico della Taschen: curati, artistici, tirati a lucido, e buoni giusto per una libreria di reminders. Le sue discese a colpi di estetica digitale nella storia dell'arte, o come in Eisenstein in Messico, nella storia del cinema, sono prodotti di lusso da duty free, arte da aeroporto, rimodellazione ricercata di un contesto che vive a fianco dell'opera d'arte, che la contiene, e che di norma il visitatore di un museo, lo spettatore di un quadro o di un film, legittimamente non conoscono. 

Greenaway da anni si impegna in uno sforzo tutto suo per raccontare e ricostruire il superfluo della storia dell'arte, gioca con il campo e il fuoricampo di un'opera, scavalca la cornice e dilata il tempo, anima l'immobilità, scompone, ricompone, incolla, attacca e stacca: come un bambino. Ma con il gusto di un esteta. E dunque è infantile e cattedratico, buffo e pedante, a volte capace di scivolare nel grezzume involontario, magari nella piattezza da format televisivo.

Con Eisenstein, però, bisogna ammettere che l'operazione non propriamente esaltante - raccontare cioè alla sua maniera, con trucchi digitali, split-screen, associazioni visive e mentali, ironia, isteria, dialoghi sull'arte, foto, proporzioni rinascimentali, accostamenti barocchi, frammenti di altri film, sesso e senso del grottesco, i travagliati giorni messicani del regista sovietico durante le riprese di quello che sarebbe poi diventato l'incompleto ¡Que viva Mexico! - gli riesce piuttosto bene. O quanto meno, gli riesce divertente e giocosa, per una volta pretenziosa solo nelle intenzioni e non troppo - non sempre - nei risultati. 

Il suo Eisenstein è un petulante geniaccio egoista e vanesio, veste sempre di bianco - un completo regalatogli da Chaplin, e lui ci tiene - non fa una mazza tutto il giorno, il film lo fa girare dal suo operatore, il grande Eduard Tisse, e per il resto parla, parla sempre, ad alta voce, in inglese, con inclinazione russa, giusto per rendere il tutto più isterico e straniante, e dorme, impara l'arte della siesta e intende praticarla il più possibile. Ma questo Eisenstein insopportabile e ridicolo sa anche innamorarsi, di un uomo, tanto da desiderare di non tornare più a Mosca, tanto da non riuscire più a creare, perché la creazione nasce solo dalla frustrazione, dice a un certo punto; e con quest'uomo, un antropologo messicano che gli fa da guida, impara anche il sesso anale, uno sverginamento al piacere e all'assenza di difese che in una scena indubbiamente geniale, con uno dei suoi quadri mobili perfettamente illuminati e composti, Greenaway paragona allo sverginamento della Russia durante la Rivoluzione d'ottobre, con tanto di bandierina rossa issata fra le chiappe del regista di Ottobre.

Si è divertito, insomma, Greenaway a tratteggiare il suo Eisenstein arrogante e scansafatiche, si è divertito e ha trovato anche il modo di riflettere sulla necessità del vuoto, della vita come semplice respiro, da opporre all'ossessione della continua creazione, della perenne festa mobile di colori e musica e frastuono. E in tutto questo, per una volta si diverte un poco anche lo spettatore, non più tenuto in disparte dell'operazione intellettuale, ma accompagnato nel solito mondo multitasking del regista inglese alla maniera di Eisenstein stesso, con il montaggio delle attrazioni che collega figure storiche ai loro originali mostrati in fotografia (il racconto a mitraglia dei giorni hollywoodiani del regista è un altro momento notevole), che riprende sequenze di film e le mischia al resto, che gioca con le magie del digitale per comporre carrellate impossibili, unendo scene e dimensioni spazio-temporali separate, che sa essere triviale, paradossale, barocco, eccessivo scorrendo via come un treno in corsa.

Certo, resta l'assoluta gratuità del film biografico schizoide e chissà perché così irriverente; e quando Greenaway attacca con le sue menate visive ha la complessità di un'animazione salvaschermo; e proprio per questo l'accumulo a strati di robaccia digitale dà l'idea di trovarsi in uno scantinato ingombro di materiale pronto per impolverarsi: ma almeno questo Eisenstein pop e cazzaro mette di buon umore, si fa detestare e insieme voler bene, e soprattutto fa dimenticare per quasi tutto la durata di Eisenstein in Guanajuato che in teoria, lui, il regista dell'occhio della madre e del montaggio "annaloggico", come diceva il geometra Calboni, dovrebbe stare lì in scena per girare un film che è parte della storia del cinema, ma del quale grazie a Dio, in questo contesto, che non è una lezione per universitari, a nessuno, primo fra tutti Greenaway, che in fondo dice da sempre di sbattersene di quello che il cinema ha fatto nei suoi primo cento e passa anni di vita, sembra fregargliene qualcosa. 

Eisenstein in Messico
Belgio, Francia, Messico, Olanda, Finlandia, 2015, 105'
Titolo originale:
Eisenstein in Guanajuato
Regia:
Peter Greenaway
Sceneggiatura:
Peter Greenaway
Fotografia:
Reinier Van Brummelen
Montaggio:
Elmer Leupen
Cast:
Elmer Bäck, Luisa Alberti
Produzione:
Submarine, Fu Works, Paloma Negra
Distribuzione:
Teodora Film

Nel 1931, al vertice della sua carriera, il regista sovietico Sergei Eisenstein è in Messico per girare un film. Incalzato dal regime stalinista, che vorrebbe richiamarlo in patria quanto prima, Eisenstein passa gli ultimi dieci giorni del suo viaggio nella cittadina di Guanajuato.

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