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Una questione di Metodi

«Bud ci ha dato libertà», ha detto una volta Jack Nicholson, che era suo amico. Ecco, tutto si riduce a un prima e un dopo: forse Brando non è stato, come diceva Coppola, il miglior attore cinematografico del mondo, ma quasi certamente è stato il più importante. Esiste un “pre-Brando”, nel quale c’erano sostanzialmente due “scuole”, quella classica, alla Olivier, ma anche alla Barrault o alla Cary Grant (due attori che piacevano a Brando), e quella del “natural”, l’attore che sembra non reciti, della quale fu maestro assoluto Spencer Tracy (che, forse non a caso, era il suo attore preferito). Ed esiste un “post-Brando”, dove la recitazione, in meno di un decennio, si stravolge, e non solo perché entrano in scena sesso e sensualità (che, in fondo, c’erano già, e non solo nel cinema europeo, basti pensare a Clark Gable, Robert Mitchum, Burt Lancaster, Ava Gardner o Rita Hayworth), ma perché cambia l’approccio al metodo di recitazione. Appunto il Metodo. O meglio I Metodi, perché dall’insegnamento di Stanislavskij a New York nacquero prima, negli anni 30, il Group Theatre, e poi, alla fine degli anni 40, due scuole diverse, l’Actors Studio guidato da Lee Strasberg ed Elia Kazan e lo Stella Adler Conservatory (oggi Studio of Acting): tutti avevano fatto parte del Group, ma Adler aveva rotto con Strasberg dopo aver intensamente studiato per un mese a Parigi con lo stesso Stanislavskij, aveva poi lavorato con Erwin Piscator nel suo Dramatic Workshop e contrapponeva il suo Metodo all’altro, più famoso, dell’Actors Studio. Semplificando: se un attore deve interpretare una gallina, per Strasberg la gallina diventa l’attore (che deve tirar fuori le sue emozioni sepolte), per Adler l’attore diventa la gallina (e ne studia le emozioni).

Dalla fine degli anni 40 a oggi, quasi tutti i maggiori attori americani sono passati da una delle due scuole, spesso da entrambe. Marlon Brando studiò con Stella Adler, fu sempre ostinatamente “adleriano” e detestava Strasberg, che considerava un uomo ambizioso ed egoista, che cercava di farsi passare per un oracolo della recitazione e un guru. Anche se ogni tanto «di sabato mattina frequentavo l’Actors Studio perché c’erano i corsi tenuti da Elia Kazan, e di solito anche tante belle ragazze. Ma Strasberg non mi ha mai insegnato niente». E fu proprio l’esplosione del ventitreenne Marlon Brando sulla scena di Broadway, nel dicembre del 1947, nella parte di Stanley Kowalski (seguita nel ’51 dalla versione cinematografica, diretta da Kazan), a innescare la valanga dei Metodi. Guardando Un tram che si chiama desiderio film, si assiste a una vera e propria conflagrazione di stili: da una parte c’è la fragile, desolata, nevrotica Blanche di Vivien Leigh (ça va sans dire, classica, classicissima, scuola Olivier), immersa nelle vestigia di un passato scivolato nella decadenza e nell’instabilità, dall’altra il mondo proletario, spiccio, fisico del Quartiere Francese di New Orleans, impersonato da Kowalski (Brando – Scuola Adler), Stella (Kim Hunter –Actors Studio), Mitch (Karl Malden – Actors Studio). Non si tratta di vecchio e nuovo, di migliore o peggiore; Laurence Olivier resta uno dei più grandi attori della storia, e con lui tutta la scuola, anche contemporanea, inglese, e su tutti John Gielgud, che rimase talmente impressionato dal Marco Antonio di Brando nel Giulio Cesare di Mankiewicz da invitarlo per una stagione nel suo teatro londinese (invito declinato).
Ma nel Tram c’è qualcosa di inconsueto che balza fuori e travolge gli stilemi classici; e questo qualcosa non è semplicemente il sesso, la sensualità esplicita del corpo, le labbra, gli occhi di Brando. Infatti, quando circa dieci anni dopo assistiamo a uno scontro analogo di recitazioni, la sensualità, il desiderio sono altrettanto espliciti nella “controparte”: in Pelle di serpente di Sidney Lumet, ancora da Williams, è il “naturalismo” mediterraneo di Anna Magnani a incrociare i Metodi di Brando, Joanne Woodward e Maureen Stapleton (entrambe Actors Studio), e questa volta l’amalgama è meno riuscito, purtroppo a scapito di Magnani (anche a causa dell’opera, minore, ridondante, di Williams), che rischia di apparire datata, ancora “rosa tatuata” (il film di Mann era di cinque anni prima), di fronte alle bizzarre, talvolta eccessive, quasi stranianti interpretazioni dei coprotagonisti.
Quello cui si assiste nel Tram cinematografico del 1951 è un vero e proprio passaggio di testimone, da una generazione all’altra, da un mondo a un altro. Non l’unico esempio, ovviamente, ma certamente uno dei primi.