CINEFORUM / 1NS

The Man in the High Castle

In questo numero di «Cineforum» ci sono un sacco di comunisti, o post-comunisti, post-stalinisti, post-caduta Muro, o trotskisti, krusceviani, marxisti leninisti, beat dissidenti, comunisti eretici o comunisti delusi.

L’idea di un approfondimento sul (genericissimo) concetto di comunismo nel cinema più o meno contemporaneo ci era venuta fin dalla Mostra di Venezia, dove almeno due film (Cari compagni di Andrej Konalovskij e Miss Marx di Susanna Nicchiarelli) ci ragionavano sopra (ma per esempio anche One Night in Miami di Regina King rifletteva su una specifica lotta di classe e di pelle). E su questa prima idea si sono innestati, un po’ per Caso e un po’ per Storia, l’eccentrico Edgar Morin, che fu espulso dal Partito Comunista Francese nel 1951, e il delusissimo George Orwell, che andò a combattere in Spagna nel ‘36 e ritornò in Inghilterra ancora più arrabbiato con i compagni comunisti russi di quanto non fosse il protagonista di Terra e libertà di Ken Loach.

Fondamentale: non dimenticare, nel bene e nel male. Non dimenticare che quello che era mostruoso nel nazifascismo fu poi altrettanto orrendo nello stalinismo, ma che anche il capitalismo liberista prevede derive autoritarie ugualmente letali e lesive. Che la libertà individuale non implica la cancellazione o il disprezzo di diritti altrui, che i Muri (tutti) fanno più male che bene. Che il pensiero e le idee vanno coltivate e non dismesse. Mutazioni costanti e consapevoli del pensiero, con l’accento su “consapevoli”, qualità elucubrativa che si contrappone per sua stessa natura alla rissosità cieca.

Ma tornando a Orwell, chi meglio e più di lui può risvegliare il pensiero e suscitare assonanze, oggi, in tempi di faccioni di Grandi Fratelli a est e a ovest o di lugubri fisionomie kgbeiane e spudorate dittature militari. Come in tempi di pandemia: città talvolta vuote e schermi, schermi, schermi casalinghi ovunque (certo, meno male che questi schermi ci sono, ma poi finiamo per sentirci sempre più intrappolati in case sinistramente simili a quella asettica di Mildred Montag in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury).

Forse la fantascienza ha davvero capito e anticipato tutto. Se fosse così, ci sarebbe molto di che preoccuparsi. E vale la pena di ricominciare a pensare come uscire dal mondo sempre più distopico che ci siamo creati. O forse, invece, stiamo vivendo in una ucronia e da qualche parte c’è l’altro universo dove tutto questo non è successo. Basta chiedere a Philip Dick.