CINEFORUM / 520

La "parte" degli angeli

di Andrea Chimento

«Every year about 2% of the spirit is actually lost. It just disappears and evaporates into thin air. Gone forever. It’s what we call the “angels’ share”». È uno dei momenti centrali in La “parte” degli angeli: un’inserviente di una grande cantina di whisky spiega segreti e magie del prodotto invecchiato in ampie botti di legno. In una pellicola rigorosamente ancorata alla realtà, un piccolo spazio ai limiti dell’onirico e del trasognante lascia disorientati spettatori e protagonisti, rimasti a bocca aperta di fronte alle parole della ragazza. In qualche modo il cinema di Ken Loach è tutto qui, in un istante in cui la poesia riempie un mondo che sembrava non avere più spazio da riservarle.
La storia è quella di Robbie, un giovane (ex) teppista, deciso a rigare dritto dopo la nascita del primogenito. Per via del suo passato burrascoso, trovare lavoro è ancora più difficile e in pochi si fidano del suo cambiamento. Processato per aver picchiato a sangue un ragazzo, Robbie evita per un soffio la galera (il giudice tiene conto della sua imminente paternità) ed è condannato a trecento ore di lavori socialmente utili. Nonostante possa apparire come un grigio dramma sociale, in piena sintonia con le corde del regista, La parte degli angeli è una sorta di curiosa favola contemporanea, originale e divertente a partire dall’evolversi della trama. Robbie è aiutato da Harry, il suo tutore-responsabile, che, scoperta la particolare sensibilità gustativa del ragazzo nei confronti di vari tipi di whisky, decide di introdurlo nell’ambiente degli amatori del malto: è così che al giovane, e al suo gruppo di rieducazione, viene l’idea di un “colpo” tutt’altro che convenzionale, in grado di offrir loro un futuro sereno.
Anarchico e persino sovversivo nel suo andamento narrativo, La parte degli angeli è un’intensa parabola esistenziale che offre diversi spunti di spessore per riflettere su ironie e contraddizioni dell’età contemporanea: dalla ricerca tragicomica di un lavoro alla necessità di trovare nuovi affetti e passioni. Ken Loach ha dichiarato che l’idea del film è nata analizzando un dato preoccupante: nel 2011 i giovani disoccupati in Gran Bretagna hanno superato il milione. Con questa premessa, il regista e il fidato sceneggiatore Paul Laverty hanno scelto di raccogliere storie di ragazzi nella zona di Glasgow: tra questi hanno trovato Paul Brannigan, il futuro protagonista della pellicola, che non aveva mai lavorato per il cinema. Brannigan, ennesima scoperta di un autore che continua a scovare attori di talento, ha alle sue spalle una storia molto simile a quella del personaggio che avrebbe interpretato.
Vuole salvare il suo Luke (che «si chiamerà sempre così», ripete in una struggente sequenza di fronte al padre della sua compagna) da quel destino degradato, fuggendo da quella realtà e dedicando il resto della vita alla sua nuova passione. Ci riesce, ma senza dimenticare di ringraziare il suo angelo custode Harry con una parte importante del suo bottino. In fondo, La parte degli angeli è, paradossalmente, una triste ballata che brinda alla bellezza di una vita, dove la prova più dura è non smettere mai di cercare la felicità: la si può trovare dietro l’angolo oppure dentro una botte di whisky.
Se molto cinema contemporaneo, compreso quello di casa nostra, sta arrancando sempre più nel tentativo di rappresentare adeguatamente la crisi (economica, ma non solo), inciampando tra visioni eccessivamente crude e deprimenti, da un lato, o banalmente grottesche e a forte rischio di superficialità, dall’altro, l’approccio del regista inglese è forse quello più adeguato. Arrivando ai limiti dell’ossimoro, la coppia Loach-Laverty ci mostra un allegro brindisi in cui non manca la malinconia, in cui la speranza di un futuro migliore si mescola (più che scontrarsi) all’angoscia per l’apparente impossibilità di un cambiamento.
Mimetizzando (e proprio per questo esaltandolo ancor di più) l’impegno sociale sull’argomento, il regista regala un’opera ottimist(ic)a, in cui ribadisce a chiare lettere le sue convinzioni e la sua idea di cinema. In attesa di tornare al documentario, una delle sue prime passioni, con The Spirit of ’45 (incentrato sulla nascita del welfare state post-seconda guerra mondiale), Loach, arrivato a settantasei anni, ci offre una delle pellicole più sentite della sua carriera, un vero e proprio messaggio di speranza che mai dimentica e mai manca di rispetto alle dolorose situazioni che racconta. Una poesia moderna (e morale) i cui versi mettono in rima verbi scurrili e parole di conforto. In un certo senso un film di cui il mondo di oggi ha davvero bisogno. Da vedere, possibilmente, con un bicchiere di whisky in mano, ma ricordatevi: la parte degli angeli offritela a Ken Loach.