CINEFORUM / 524

La colpa degli sconfitti

di Roberto Manassero

Non c’è redenzione, in Su Re, non si vede, non è rappresentata, è solamente evocata. La rinascita, come per Cristo, passa attraverso l’annichilimento. Non c’è nemmeno spiritualismo, ammirazione laica o compassione per la sofferenza umana, tutti sentimenti che potrebbero adattarsi a una rappresentazione della Passione che ha tutti i crismi della contemporaneità: la secchezza espressiva, il minamilismo figurativo, l’anonimato degli interpreti, la sottrazione di riferimenti iconografici, se non addirittura il loro totale azzeramento.
Su Re è un film sulla colpa – e per questo è profondamente cattolico. Una colpa che c’è, che si vede, ma non si sa da dove proviene; una colpa forse innata, certamente ingiusta, ma che il popolo sardo, agli occhi di Columbu, non può che interpretare e assumere come propria. Dove starebbe l’originalità del film, al di là delle molte ragioni produttive e distributive, della tenacia di Columbu stesso, della sua forza di coinvolgere la Regione Sardegna, Nanni Moretti, addirittura Rai Cinema, se non in questa spaventosa assunzione di colpa fatta cadere come una dannazione sul proprio popolo, sulla propria storia millenaria, e dunque su se stesso? E dove starebbe il senso di questa ammissione collettiva se non nel desiderio di abbracciarla per superarla e tornare a richiedere ascolto, giustizia, dignità? Di certo, non possiamo considerare sorprendente o dirompente quella macchina a mano incollata ai corpi, che ormai si vede in ogni film dall’iconografia scarnificata; o ancora, non possiamo accontentarci della redenzione dei folli (molti degli attori non professionisti coinvolti provengono dall’Istituto di igiene mentale della zona di Pietrina Mennas, nel Supramonte, dove il film è stato girato) attraverso il mistero della religione, ché se il parametro è questo Su Re impallidisce al confronto con Els cant dels ocells (2008) di Albert Serra.
Finisce così, infatti, Su Re: con tre bambini che si allontanano in campo lungo e si voltano furtivi, come se qualcuno li osservasse, forse li seguisse, per poi proseguire per la loro strada impervia. La macchina da presa li tiene in campo, ma un po’ barcolla, come del resto ha fatto lungo tutto il film (come del resto fa ormai ogni operatore di questo mondo – non sia mai che la macchina stia ferma, che non testimoni da sé la fragilità dello sguardo come prima regola del cinema contemporaneo…). Lo sappiamo senza che ci venga mai detto, che quel campo lungo in realtà è una soggettiva, e che gli occhi che guardano le tre creature innocenti partecipi della colpa non sono altro che gli occhi di Gesù, gli occhi strabici del figlio dell’uomo martoriato che condanna i propri assassini all’oblio della Storia.
Nella sofferenza di un uomo, Columbu vede la sofferenza di un popolo; nell’ignoranza della povertà, della rabbia, dell’inconsapevolezza scorge la vendetta del divino contro l’umano: non c’è nulla di religioso o tantomeno reazionario, ma c’è una grande onestà intellettuale nel riconoscere il destino di una terra che nel proprio isolamento non vede una forza, bensì una debolezza.
E così, nello sguardo dei bambini inseguiti, nella fragilità commovente del Giuda traditore, nel piano di Maria ai piedi del cadavere non ancora resuscitato, nell’orgoglio di Giuseppe d’Arimatea che si definisce «amico» e infine, in chiusura, nelle parole del profeta Isaia («Dopo tanto dolore, Egli ritorna a splendere e con Lui il mondo»), Columbu supera il determinismo rassegnato della sua riflessione e apre, oltre il film, al mondo che verrà, a ciò che potrà avvenire grazie al sacrificio perpetrato all’infinito del figlio dell’uomo. La giustizia è una sete, il mondo in cui abita una landa desolata, e solo un uomo libero dalla colpa potrà dissetarsi. Su Re, in fondo, è un rito di espiazione.