CINEFORUM / 525

Il mestiere della politica

di Nicola Rossello

Scartando pertanto le comode lusinghe (e le mistificazioni) dell’opera a tesi ideologicamente schierata e partigiana, ed evitando di ricorrere a luoghi comuni improduttivi, quelli che insistono sull’opposizione manichea tra sinistra e destra, dove il polo negativo è gratificato di ogni possibile nefandezza, il regista sceglie di seguire da presso il mestiere – frenetico, caotico, spossante – di chi svolge quotidianamente l’esercizio dello Stato. Per Schoeller, si tratta di far emergere, oltre le luci della ribalta, la controparte naturale, umana, inevitabilmente mediocre, di un alto dirigente politico, la cui attività si riduce, a conti fatti, a uno snervante correre da un impegno a un altro, tra appuntamenti, telefonate, sms, discorsi ufficiali, riunioni con gli altri membri del Governo, interviste alla stampa, apparizioni sui palcoscenici televisivi, consultazioni con i propri collaboratori. Un lavoro gravoso, totalizzante, da compiere sotto una pressione continua. Sempre a rotta di collo. Sempre sul filo del rasoio. Perché il terreno su cui si muove l’uomo politico è un terreno infido, e dietro ogni problema da risolvere si può sempre nascondere un’insidia. La politica, si sa, è una guerra di tutti contro tutti: una battaglia perpetua, che non conosce tregua. Ogni oligarca è consapevole che la sua posizione è soltanto provvisoria e deve essere difesa giorno per giorno, con le unghie e con i denti. E in questa lotta accanita egli non può avere amici ma solo rivali sempre pronti a sfruttare la più piccola occasione per rovesciarti nella polvere.
Di qui il senso di frustrazione che sembra attanagliare chi assiste impotente alla catastrofe sociale, registrando, nel contempo, le disfunzioni del sistema democratico: il progressivo distacco dai problemi reali da parte di coloro che incarnano lo Stato; il venir meno, nella classe dirigente, di quella dirittura morale che individua nell’esercizio della politica un’attività finalizzata al bene comune; lo scollamento crescente tra le istituzioni e l’uomo della strada – il quale prova ormai un sentimento di totale sfiducia nei confronti di chi lo governa («Il popolo non si fida e ha sempre il diritto di non fidarsi perché non ha il potere», dice il Presidente, commentando le scene di disordine sociale che passano in televisione) (1).
Saint-Jean resta una figura inafferrabile, enigmatica, «un oggetto politico non identificato, indistinto» (così lo definisce Pauline); un individuo in cui convivono atteggiamenti e disposizioni d’animo divergenti e contraddittori: un viluppo inestricabile di ambiguità che il racconto sceglie deliberatamente di non risolvere, giocando sino alla fine sulla complessità del personaggio, venendo a suggerire qualcosa di sfocato e di sfuggente, di segreto. Il Ministro conosce la vertigine indicibile che nasce dalla funzione che ricopre. Sperimenta l’illusione dell’onnipotenza e la sua frustrazione. Schoeller mette pienamente in risalto il volto umano del protagonista del film, la sua fragilità, gli aspetti più propriamente “creaturali”: Saint-Jean che si eccita nel sonno, che rischia di restare soffocato mangiando un pezzo di pizza, che vomita dopo la visita sul luogo dell’incidente; Saint-Jean che si ubriaca, che straparla, che si mette a impastare la malta in piena notte, a petto nudo; Saint-Jean che ha i suoi momenti di esaltazione, che si lascia trascinare dalla rabbia, che è assalito dallo sconforto, dai sensi di colpa («Non mi ameresti, se mi conoscessi», arriva a dire alla moglie). Benché si muova ancora da inesperto nel mondo della politica («Ha ancora molte cose da imparare», ci confida il regista), il Ministro non è uno sprovveduto. Egli sa che la politica è anche un gioco sporco, che comporta inevitabili mediazioni, compromessi. Nelle sue prese di posizione sembra prevalere il significato di un allontanamento dalla sfera dell’idealismo ingenuo, senza che questo faccia di lui una persona priva di principi morali, o un intrigante preoccupato solo del proprio tornaconto personale, come il subdolo Ministro del Bilancio.
Saint-Jean non possiede l’equilibrio, la determinazione di Gilles. Il capo di gabinetto rappresenta, nel film, la figura dell’irreprensibile servitore dello Stato, depositario di valori morali considerati obsoleti («Essere giusti in tempi bui», sono le prime sue parole). Gilles è l’uomo della tradizione («Sei l’unico che conosco che porti le stesse scarpe da vent’anni», gli dice il Ministro), un campione di quell’età eroica della politica a cui lo consegna la scena, rischiosissima, in cui lui, uscendo dalla doccia, ascolta rapito, quasi con le lacrime agli occhi, la voce stentorea di Malraux che pronuncia l’orazione funebre su Jean Moulin (si pensi, per contro, all’asciutto discorso che Saint-Jean avrebbe voluto tenere al funerale di Kuypers). Figura quasi sacerdotale nella sua totale dedizione alla propria funzione, Gilles è consapevole che lo spazio etico entro il quale agisce è divenuto ormai uno spazio senza illusioni, dominato dalla morte di ogni idealismo. Una consapevolezza che lo condanna inevitabilmente all’emarginazione. Alla fine del film, il Presidente decide di escluderlo dalla lista dei collaboratori si Saint-Jean. «Non è una dimenticanza», precisa «Abbiamo bisogno di sangue fresco».
La carta vincente del film è la sceneggiatura: inventiva, studiatissima, un meccanismo solido, orchestrato con straordinaria sapienza e lucidità, che mira al perfetto equilibrio tra le parti. Alle scene in cui il racconto procede a tambur battente, tra dialoghi fittissimi e inopinate accensioni drammatiche (su tutte, la sequenza, di una torva densità espressiva, dell’incidente in cui Kuypers trova la morte), fanno da contrappunto momenti dal ritmo più disteso, dove tuttavia si continua a respirare quel clima ansiogeno che non lascia mai la pellicola. Il tutto è attraversato da un flusso frenetico di immagini e suoni (notevole la partitura musicale con le sue repentine e stridenti vibrazioni elettroniche), un vortice implacabile teso a comunicare un senso di malessere, di smarrimento.

 

(1) L’ostinato silenzio in cui si chiude Kuypers, l’uomo venuto dal popolo a farsi umile e rassegnato testimone, nonché vittima sacrificale, di un mondo che non è il suo, e in cui non potrà trovare spazio, la dice lunga sulla mancanza di comunicazione che s’è venuta a creare tra la classe dirigente e la gente comune.

 

<p style="\&quot;text-align:" justify;\"="">(2) Il significato simbolico della scena si verrà a precisare nel corso del racconto. Sulla sequenza inaugurale del film lo stesso Schoeller avanza tuttavia un’ipotesi interpretativa più sottile: «Questo prologo era per me un modo di porre ciò che mi premeva: la pratica del potere prima di essere un problema di linguaggio è un problema di eccitazione, una tensione tutta fisica, un demone, un diavolo nel corpo di Saint-Jean, prima ancora di sapere se siamo nella menzogna o nella verità, è un corpo che parla».