CINEFORUM / 527

La danza panica dell' entusiasta

La danza panica dell' entusiasta

 

«C’è sempre qualcosa di invisibile che sento così intensamente… che ci lega con tanta forza. Amo questo sentimento, anche se a volte mi fa piangere».
Se si vuole mettere in scena l’affettività umana – ed è quanto Malick si propone in To The Wonder – è inevitabile chiamare in causa la dimensione di incontro-scontro connessa alla differenza dei sessi. Ma sarebbe facilissimo, di qui, collocarsi nel tradizionalistico e nell’archetipico, se non addirittura scivolare nello schematico e nello stereotipico. La rappresentazione del maschile e del femminile negli ultimi tre film di Malick, infatti, si muove pericolosamente vicino alla tipizzazione banalizzante e al gioco delle parti, prestandosi all’equivoco (anche ideologico: farebbe capolino una visione reazionaria della coppia, ancora intesa a partire dalla determinazione biologico-sessuale anziché da quella culturale e di genere).
In secondo luogo, il movimento del corpo femminile è talmente pervasivo – non solo in To the Wonder, ma, come si accennava, nell’intera produzione recente del regista – che esso si fa manifestamente voce di qualcosa di più ampio, che trascende la stessa femminilità, sebbene s’intuisca come esso intrattenga un’intima connessione, tutta da dispiegare e svolgere, con la differenza sessuale. La vivacità del corpo femminile è così importante da assecondare e riprendere ermeneuticamente perché, a ben vedere, costituisce uno dei principali elementi di discontinuità intervenuti nel cinema di Malick: rappresenta la nuova forma, forse ancora più incandescente e raccolta, dell’esperienza fondamentale alla base della sua ispirazione artistica.
Tuttavia, è di questo che desidera parlarci Malick? La voce over di Marina ci offre una diversa indicazione: fa cenno, in conclusione del film, all’“amore che ci ama”, ringraziando. Dunque, si tratta di un amore che supera i confini dell’individuo, del soggetto, anche se forse non quelli dell’uomo; è un amore che non controlliamo, che non possediamo, di cui non disponiamo, ma piuttosto, sembra di capire, un amore che ci eccede da ogni lato, sebbene in qualche modo occhieggi proprio verso di noi, ci ri-guardi. Prima che amanti, siamo amati. Ciò attribuisce all’amore un’indole stra-ordinaria e – rispetto alle perimetrazioni soggettive – del tutto anomala e paradossale. Il “nostro” amore non è che un rispondere, meglio ancora, un corrispondere a un amore che ci precede, chiamandoci in causa. Un simile amore implica un’esperienza di spossessamento, di straniazione al contempo da sé (in quanto soggetti) e fino a se stessi (in quanto esistenti).
È una danza panica, ispirata da una presenza incomprimibile in qualsiasi determinazione o definizione o incasellamento o appropriazione, talmente sovrabbondante da implicare una cosa e il suo opposto, da negarsi e contraddirsi, sottraendosi dolorosamente alla nostra presa, ma proprio per questo rendendo la nostra esperienza, costantemente scavata dal negativo, abissalmente libera. Nella danza l’uomo entra in vibrante unisono con l’armonia del cosmo, armonia dei contrari, armonia inapparente, in cui predomina un tratto parco, nascosto, sfuggente, in virtù del quale le polarità fondamentali (vita/morte, giovane/vecchio, uomo/donna, visibile/invisibile, terra/cielo, uomini/dei) transitano l’una nell’altra, si alimentano l’una dell’altra, secondo quella fluidificazione simboleggiata dalla “terra di mezzo” di Mont Saint-Michel – vera e propria soglia a partire da cui si divaricano gli opposti.
Eppure, il Dio cristiano non sembra essere esaustivo del fenomeno. “L’amore che ci ama” viene raccontato in modo per così dire più “elementare”. È lo sconfinato aperto di cui partecipiamo estaticamente, lo sconfinato aperto a cui Marina (al pari della sua sorella elettiva Pocahontas) corrisponde con il gesto emblematico di allargare le braccia, quasi per accogliere l’infinita e poliedrica presenza dell’essente, nel suo rilucere e sfolgorare, e renderle grazie. Si tratta della genuina elementarità dello stupore di fronte a ciò che è – stupore intessuto di leggerezza e delicatezza. To the Wonder suona, non a caso, il titolo del film (programmatico, sebbene mai astratto, perché Malick non intende affatto cimentarsi in un film-saggio o in un film-manifesto). Su, verso l’alto, verso la meravigliosa luminosità del divino (come vien detto da Marina salendo una scalinata durante la visita a Mont Saint-Michel). E al contempo: alla meraviglia, come se si trattasse di un inno, di una celebrazione dello sguardo puro e cristallino capace di attestarsi all’altezza del caleidoscopico gioco delle forme cosmiche.