CINEFORUM / 528

In memoria dello Stato sociale

 

 

Se lo “spirito” di quel momento fu forte, l’attuazione che ne conseguì, pur in un clima di entusiasmo generale, fu alquanto discutibile. Ken
Loach si rende conto e fa intendere che il neonato Stato sociale necessitava di un movimento dal basso, di poggiare saldamente su quello “spirito” collettivo, comunitario, mutualistico, che invece i trent’anni successivi tradirono al punto da lasciar campo libero all’opera di azzeramento portata avanti con la premiership di Margaret Thatcher. Distingue perciò molto bene la temperie popolare dalla prassi politica governativa. Lo “spirito” del tempo rimase, potendo perciò essere rivendicato e riproposto oggi, un oggetto non completamente identificato, un’opportunità mancata, ancora di là da venire: una corrente di energia sociale nella sostanza soffocata da uno Stato ancora burocratico, privo di partecipazione diretta, che istituzionalizzò e poco per volta disattese le istanze di base. Il vento “socialista” che nel dopoguerra in Inghilterra soffiò prese da subito – come intuì un anonimo autore di un lontano opuscolo del 1886 – una direzione purtroppo «a favore di una amministrazione forte centralizzata» (2), a dispetto di quella componente che inevitabilmente avrebbe assunto connotazioni anarchiche senza tuttavia assumere forma partitica.
Questa componente ideale, tutt’altro che astratta o illusoria, in The Spirit of ’45 c’è. Donde l’aspetto inequivocabilmente militante, che con cognizione di causa va dunque inquadrato – è il caso di dire – nella giusta dimensione cinematografica. Senza quindi dimenticare, come troppo spesso accade, che Ken Loach è un regista cinematografico. Che i suoi sono innanzitutto dei film e come tali vanno considerati, capiti, lungi da letture strettamente contenutistiche le quali prescindono da come un film è appunto organizzato. Né si può, con The Spirit of ’45, rimettere mano a vecchi strumenti spuntati come la distinzione tra documentario e film di finzione, che dovrebbe oramai aver fatto il loro tempo. Non c’è in Ken Loach un approccio diverso alla fiction rispetto alla cosiddetta, presunta nonfiction. Piuttosto una relazione forte. Addirittura una attrazione, reciproca. Così marcata da spingere solitamente ad affrontare ogni suo film a soggetto, recitato da attori, proprio perché molto diretto e immediato, in termini molto realistici. La finzione va verso la realtà. E viceversa, come nel suo segmento del film collettivo 11 settembre 2001 e ora in The Spirit of ’45, nei quali bisogna riflettere sull’importanza della costruzione narrativa nella forma di documentario adottata, pur così classica, trasparente, austera: il ruolo giocato dal montaggio, che provvede al posizionamento strategico dei frammenti all’interno di blocchi tematici, cronologici e discorsivi, è quindi consequenziale all’altrettanto accurata ricerca d’archivio e preliminare per la riposizione a colori delle stesse immagini di repertorio in bianco e nero inaugurali. Investendo tanto i contenuti quanto la forma del film, e con essa le modalità di ricezione dello spettatore.
Ma ogni sogno è destinato a durare poco. In ogni film di Ken Loach, di finzione o meno, quando tutto sembra procedere (apparentemente) per il meglio, qualcosa si prepara a succedere. Se tutto va bene, troppo bene rispetto alle premesse negative ambientali, sociali e individuali, vuol dire che è giunto il momento della retromarcia catastrofica. Inaspettato ma coerente con un dispositivo filmico non edulcorante o ingannevole, sopravviene l’avvenimento imprevisto che fa precipitare la situazione. Il provvidenziale assestamento, conseguito dai protagonisti con grande fatica in un clima prossimo alla disperazione, salta irrimediabilmente. Anche in The Spirit of ’45: a metà film, dopo aver dato conto delle principali tappe della nazionalizzazione operata dal Welfare (la sanità, l’edilizia, le miniere, i trasporti, i contratti di lavoro, l’energia elettrica), assistiamo a un balzo temporale in avanti, molto brusco. L’azione si sposta nel fatidico 1979 con l’insediamento della Thatcher che innesca l’altrettanto sistematico smantellamento delle importanti ma non inossidabili, né immacolate conquiste del sistema pubblico. Questo “buco” di quasi trent’anni rende più forte lo “shock”, marca l’inversione di tendenza. Induce a interrogarsi daccapo su cosa non abbia funzionato, già allora, proprio quando lo “spirito” originario, progettuale, imprendibile, quasi zavattiniano, cominciava a essere insidiato da compromessi di vertice. Ciò che nel film manca aiuta lacanianamente a comprendere il lungo periodo sommerso in cui l’amministrazione del Welfare attraverso i governi che si sono succeduti hanno dovuto affrontare la prova del tempo. E dei fatti.

In The Spirit of ’45 la rivendicazione di uno Stato sociale defunto o sul punto di resistere solo come ricordo o di valore da difendere e trasmettere da una generazione all’altra, proprio come il vigoroso “spirito” di quell’anno irripetibile, eccezionale in quanto partorito da un passato recente e remoto atroce, comporta una riflessione a posteriori. Che il film, a dieci minuti dalla fine, affida alle parole di John Rees, scrittore ed esponente del Partito socialista di recente fondato nel 2004, Respect (acronimo di “Respect”, “Equality”, “Socialism”, “Peace”, “Environmentalism”, “Community” e “Trade Unionism”): «Difendevamo un sistema difettoso. È questo il verme che si annidava nella mela del 1945. I lavoratori non avevano il controllo, il popolo non era coinvolto nella gestione. Non c’era il controllo dalla base, non c’erano comitati locali a gestire le case popolari, non c’erano i sindacalisti a gestire le industrie siderurgiche e del carbone. C’erano solo dei burocrati statali che avevano sostituito i burocrati aziendali». Mentre l’ultima parola spetta a Dot Gibson, Segretaria della National Pensioners’ Convention, che sulla base «di cosa significava proprietà in comune, condivisione, comunità» auspica che si possa «cominciare a ricostruire questa visione del tipo di vita che vogliamo». Esattamente come nell’appello capitiniano riportato in esergo, espressione dello “spirito” italiano disgraziatamente minoritario del 1948, complementare a quello inglese del 1945 distillato da Ken Loach.

 

(2) Anonimo, What Socialism Is, «Fabian Tract» n. 4, Fabian Society, Londra 1886.

(4) Cfr. in particolare Aldo Capitini, La realtà di tutti, Tornar, Pisa 1948 (poi in Scritti filosofici e religiosi, Fondazione Centro Studi Aldo Capitini, Perugia 1998, pagg. 171-215), e Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969; Guerra, Perugia 1999.