CINEFORUM / 530

(S)bilanci

(S)bilanci

di Adriano Piccardi

 

Partiamo dal fondo. I premi di Venezia e Roma hanno dato il via a un’esercitazione retorica, per lo più consapevole di esserlo, sul riconoscimento finalmente ufficiale delle potenzialità del “documentario”, della sua valenza cinematografica tout court, del suo partecipare a pieno titolo, ma così abitualmente misconosciuto, alla storia del cinema eccetera. Nella maggior parte dei casi si è trattato di una rappresentazione tutta interna al discorso/spettacolo della critica cine-festivaliera, anche se, come sempre capita in casi simili, non è mai da escludere che ci sia stato qualcuno davvero convinto di ciò che andava scrivendo. Poi, i primi giorni di dicembre La grande bellezza si aggiudica quattro riconoscimenti agli efa, tra cui la miglior regia, la migliore interpretazione, il miglior montaggio. Verrebbe da dire, una risposta colpo su colpo della fiction agli entusiasmi di pochi giorni e di poche settimane precedenti, sul cinema italiano che si abbevera alla fontana sempre disponibile del reale. Messa in scena (studiata?) del meccanismo premiale internazionale? Documentario e finzione – lo sappiamo tutti – si sono corteggiati da sempre. La storia del cinema è lì a dimostrarlo. In ogni inquadratura di ogni film di finzione (dal più “realista” al più artefatto) si annida in filigrana l’istanza documentaria (il corpo e la voce degli interpreti, le tecniche della messa in scena nelle scelte luministiche scenografiche, le location in ambienti “reali”, le risorse offerte dallo studio…). Allo stesso modo, ogni documentario è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni cinematografici più clamorosamente “artificiali”: luce, scelte d’inquadratura, movimenti di macchina (o la loro assenza, che è lo stesso), montaggio. Mancherebbe, apparentemente, soltanto l’elemento dell’interpretazione; e anche di questo si potrebbe discutere… La conseguenza è che dai fratelli Lumière in poi non sono certo mancati i cineasti che sul limite poroso tra questi due super-generi hanno lavorato consapevolmente, con i risultati notevoli e a volte straordinari che conosciamo. Guarda caso, anche i due film premiati di cui sopra appartengono, di fatto, proprio a questa categoria. Anche se non sempre in modo dichiarato, uno dei motivi più frequentemente evocati a sostenere l’importanza e la “necessità” dei film che propongono un siffatto approccio all’idea di rappresentazione del mondo è quello della loro valenza “politica”: da intendersi nel senso di una provocazione – letteralmente – della realtà mirata a estrarne i dettagli a volte insospettabili di una sua nascosta conflittualità, latente ma instancabilmente al lavoro. Il valore di testimonianza insito nell’atto specifico darebbe (e in effetti, non di rado, dà) a queste opere la funzione di mostrare in maniera inequivocabile come l’alleanza del doppio sguardo – quello intenzionale, del cineasta, e quello implacabilmente oggettivo, dello strumento di ripresa – sia in grado di aprire la strada attraverso la dura scorza del puro dato per coglierne i significati più segreti: una conoscenza tanto più bruciante quanto più segnata dall’imprevedibilità. Ma se è possibile individuare un filo rosso nella sequenza delle visioni annuali di cui «Cineforum» si è occupata durante il 2013, mi verrebbe proprio da trovarlo nella ricerca del punto cruciale da cui l’immagine, le modalità anche spaziali dell’inquadratura e ciò che vi è contenuto, si trasforma in discorso politico. Nel senso di discorso, in termini specifici, sulla politica e i suoi non detti; ma anche su ciò che rende “politiche” le opzioni relative all’espressione dei sentimenti (o alla loro dissimulazione); sul margine sempre modificantesi e comunque esiguo tra l’esercizio del controllo funzionale al potere o al godimento che ne deriva e la perdita di sicurezza/privilegio prodotta dal venir meno delle condizioni della manipolazione (degli oggetti o delle persone, degli affetti o dei capitali). Che tutto questo avvenga al di qua o al di là della linea incerta di demarcazione tra fiction e docu, continua in ultima analisi a non fare alcuna differenza.