CINEFORUM / 533

Le parole e le cose

LE PAROLE E LE COSE di Adriano Piccardi

 

 

<p style="\&quot;text-align:" left;\"="">Il documentario è cinema inevitabilmente legato alla memoria, per suo statuto e per la funzione che porta con sé nel quadro comunicativo. Lo è in modo esplicito, diretto. Il suo discorso, saldamente ancorato ai dati di realtà che si preoccupa di registrare e di mettere in significativa relazione – paesaggi, facce, parole eccetera –, è per sua natura rivolto innanzitutto a tramandare elementi di realtà, collettiva o privata, di portata “universale” o infinitesimale, salvandoli dal rischio dell’oblìo sempre in agguato. Questo avviene sia che si occupi strettamente del presente, riprendendolo nel suo farsi ma soprattutto nel suo disfarsi, sia che si proponga di ricondurre a noi il passato attraverso le sue tracce pazientemente individuate e seguite anche a dispetto – a volte – della loro invisibilità.Sia il film di Lanzmann che quello Amelio si rivolgono alla seconda delle due possibilità. Proprio a questo proposito, va detto che il procedimento della “soppressione della soppressione”, che porta con sé l’intenzione di cancellare non soltanto le tracce di un certo evento o di una certa condizione ma anche la consapevolezza del fatto che quelle tracce siano precedentemente esistite, è senza dubbio riscontrabile nei due testi, pur così differenti tra loro per oggetto e contesto. Ciò avviene di solito quando risulta essere in gioco una qualche forma di censura e/o di rimozione nei confronti di ricordi evidentemente ritenuti – per un motivo o per l’altro – ancora troppo destabilizzanti. In qualche modo riaffiora in questi casi un’eco, distorta e soffocata quanto si voglia, della cultura della vergogna: dunque una ammissione, forse una confessione, da parte di chi ha condotto la prima fase di occultamento, che ha sentito in seguito il bisogno di cancellarla a sua volta in un tentativo di azzeramento storico radicale autogiustificatorio. Ciò è vero, dicevamo, nel caso della memoria della Shoah (e questa è ormai verità condivisa) ma anche in quello dell’argomento trattato da Felice chi è diverso, film in cui viene fatto riemergere un «passato ormai morto e sepolto, […] quello combattivo e sognante, trasformatosi oggi non in realtà ma nella sindone della realtà». Ci sembra interessante rilevare come sia la parola – nella forma della testimonianza – il veicolo privilegiato di questi interventi di ricollocamento delle tessere cruciali del mosaico in questione, quelle tessere necessarie a “riportare tutto a casa”, ricollegando passato e presente in una circolazione di senso sentita come necessaria da chi ha voluto ripristinarla. La parola, la testimonianza, il racconto (i racconti): i soggetti narranti sono persone di una certa età che ci trasportano con i loro ricordi dei fatti in un passato filtrato dalla memoria del singolo, alla quale però non possiamo che affidarci con tutti i rischi del caso. Non si tratta, come pensiamo sia chiaro a tutti, di rischi collegati a una premeditata volontà di cammuffamento dei fatti oggettivi, quanto a una inevitabile distorsione (fatta, per esempio, di una “colorazione” particolare, di infinitesimali spostamenti dell’asse prospettico, di commenti apparentemente preoccupati soltanto di illuminare più realisticamente una certa condizione), destinata a fornire al soggetto parlante le ragioni necessarie a sostanziare e confermare la sua condizione di “sopravvissuto” (in senso letterale o metaforico, non conta). Ci sembra che i due film offrano dunque l’occasione di spingerci oltre il loro oggetto specifico per riconsiderare un tema spinoso e ustionante che, attraversando il territorio della narrazione nella sua configurazione forse più problematica, quella esperienziale, ci porta al cuore medesimo dell’istanza documentaria – o almeno di una sua imprescindibile variante.