CINEFORUM / 541

Si può rubare un'immagine ma non un pensiero

«La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace». (Primo Levi, I sommersi e i salvati – 1. La memoria dell’offesa)
L’immagine mancante è un film, un saggio teorico, un documento, una testimonianza, un’autobiografia, una riflessione storica, ma anche un canto di rumori, una storia da ascoltare, un racconto poetico. Non è un documentario, non è un’animazione, non è una ricostruzione. Quella del regista cambogiano è un’opera piena. Piena di cose, di suoni, di colori, di emozioni, di parole e di silenzi, di movimento e di immobilità.
Vincitore nel 2013 della sezione Un certain regard del Festival di Cannes e candidato all’Oscar 2014 come Miglior Film Straniero, il film ripercorre la vita del regista, figlio di un maestro elementare, nato negli anni Sessanta e avviato a una vita di studio e di conoscenza come doveva essere il destino dei suoi fratelli e di tutti i ragazzini appartenenti alla borghesia intellettuale cambogiana. Tutto però collassa nel 1975 quando il Partito Comunista di Kampuchea prende il potere arrivando fino alla dittatura e consegnando, a partire dal 1976, il paese nelle mani di Pol Pot che impone un regime di ispirazione maoista. Tra gli oltre tre milioni di vittime della dittatura ci sono tutti i componenti della famiglia del regista che perdono la vita nei campi di lavoro organizzati dagli Khmer Rossi. Qui vengono infatti deportate in massa le famiglie degli intellettuali, dei borghesi, dei cittadini, sradicati e isolati, ridotti in schiavitù, costretti ai lavori forzati perché ritenuti una pericolosa minaccia per il regime neocomunista.
In questi campi Rithy Panh vede il padre lasciarsi morire di fame, vede la madre spegnersi lentamente sfinita dagli stenti, vede sparire per sempre i suoi fratelli e le sue sorelle. Ma sopravvive e si salva. Emigra in Francia e da quel momento ha un solo bisogno: cercare una risposta alla sua sopravvivenza, darle un senso. Trovare un’immagine che dia forma a questa risposta, un’immagine che restituisca la memoria di quei giorni e consenta di non dimenticare, un’immagine capace di ristabilire la verità falsificata dalle immagini prodotte dal regime. L’immagine mancante è questa risposta. Non la soluzione, perché di soluzioni possibili non ce ne sono, ma la risposta. E non a una sola domanda. Questo film, complesso nella sua infantile semplicità e leggero nel suo affrontare l’abisso, è la risposta a una serie di domande possibili: teoriche, storiche, formali, esistenziali.
Perché fare un film? Si chiede innanzitutto Rithy Panh. La ragione che guida il regista cambogiano è disarmante nella sua assolutezza: giustificare la sopravvivenza. L’unica cosa che si può fare se si è stati testimoni dell’orrore e se si è sopravvissuti è infatti raccontare, tramandare, non lasciare affogare il ricordo nell’onda continua di racconti, storie e sollecitazioni visive cui il mondo è sottoposto. Dunque sopravvivere per raccontare, raccontare per sopravvivere, costruire un racconto per immagini che traghetti la memoria, che la salvi mantenendola sul pelo dell’acqua.
Ma come farlo questo film? Per costruire c’è bisogno di materia e qui la scelta del regista diviene sublime perché riesce a sublimare il racconto stesso dell’orrore: la materia scelta per dare forma a quell’immagine da costruire è infatti il fango, la terra che il fiume, testimone silenzioso dell’orrore, ha depositato. La stessa terra che ha accolto, assorbito, metabolizzato i corpi degli esseri umani dissoltisi nell’abisso, polverizzati dall’aberrazione umana. Ora questi corpi, queste “figurine” riprendono forma proprio da quel terreno.
Ma la scelta di come costruire il racconto, la decisione di fabbricarlo fisicamente invece che di raccontarlo attraverso immagini dal vero, non è indolore, né semplice, né tantomeno immediata. Al contrario è il risultato ultimo di un processo di ricerca di anni, un cammino estetico ed esistenziale che, in un certo senso, si può considerare conclusosi con una delusione, con un fallimento che è infine divenuto una rivelazione.
«L’ho cercata per anni quell’immagine», dice Rithy Panh. L’ha cercata ovunque, negli archivi, tra i documenti. Ha cercato per anni, con il solo obiettivo di trovare un controcampo a quanto raccontato dal regime per restituire dignità a donne e uomini affamati fino alla morte da un follia ideologica che raccontava il proprio trionfo mentre uccideva il suo stesso popolo. L’ha cercata, senza trovarla: «La rivoluzione promessa esiste solo nelle immagini», si è trovato invece costretto a concludere, mentre non esistono immagini dei costi di quella promessa.
Da qui una nuova domanda: «Ma se l’avessi trovata?» Se fosse saltata fuori la testimonianza visiva delle esecuzioni degli Khmer, delle teste tagliate, dei cadaveri, delle torture… se fosse stata trovata quell’immagine di morte? La rivelazione della ricerca è questa: alla fine, se anche avesse trovato quelle immagini, probabilmente non le avrebbe mostrate. Non perché avrebbero rappresentato l’indicibile, l’inimmaginabile, il non raccontabile ma, più semplicemente, perché non erano loro la risposta.
Non ci sono dunque immagini da mostrare «malgrado tutto», per dirla alla Didi-Huberman, non c’è da scegliere se mostrare o no: qui ci sono immagini che non mancano e immagini che mancano. Immagini che ci sono e altre che non ci sono e che vanno fabbricate per restituire la verità. Non è mistificazione, falsificazione, manipolazione ma restituzione dell’esperienza, della memoria, della dignità. L’unica via possibile per Rithy Panh, l’unico modo per trovare un senso alla sua sopravvivenza, l’unico modo per capire, per rispondere e per tramandare non è infatti raccontare sostenendo la legittimità, la necessità di mostrare a ogni costo ma raccontare legittimando la costruzione artistica del racconto stesso, la necessità di fabbricare l’immagine che racconta. L’arte, dunque, come unica via possibile.
La verità del regime, dice, «è negli slogan, nelle immagini che non mancano», è in ciò che è inquadrato, messo in scena, filmato, in ciò che è in campo; la verità della memoria deve pertanto stare, per forza, in un’immagine per natura diversa. La verità della memoria, dell’esperienza, del dolore, della sofferenza, della fame, delle perdite deve stare nel controcampo e questo deve essere occupato da un’immagine fabbricata, costruita per poterne mettere in forma l’essenza. Un’immagine poetica, si potrebbe dire.
C’è un momento, verso la fine del film, che è quasi un cortocircuito di questo principio e che di colpo ne diviene la sintesi tutta: le statuine dai volti scarni e dagli occhi infossati stanno sedute sulla terra e sono costrette a guadare i filmati (veri) del regime. Tutti in una stessa inquadratura, campo e controcampo, immagine che non manca e immagine mancante.
La conclusione è lì, la risposta è lì: «Non c’è verità, c’è solo il cinema… la rivoluzione non è che una posa»; là, sullo schermo, c’è l’immagine che non manca, seduta di fronte quella che manca, consapevole eppure inerme, con un’unica possibilità: resistere. Anche quando significa lasciarsi morire di fame per sottolineare la propria dignità di esseri umani, la propria libertà, il proprio diritto di fare una scelta. Come ha fatto suo padre: è l’essenzialità della sfida contro l’insignificanza della morte. E l’essenziale è sempre minacciato dall’insignificante, dice Rithy Panh.
Per questo l’immagine mancante è la risposta. Perché «si può rubare un’immagine ma non un pensiero» e solo attraverso il pensiero si può fabbricare l’immagine che manca, quella che restituisce il senso, il racconto, la memoria, la dignità. Solo l’immagine mancante può dunque consentire di sopravvivere, dare un senso al farlo restituendo l’unica cosa che conta, l’essenziale.