CINEFORUM / 543

L’amore muove

Nel corso della definitiva conversazione tra François Truffaut e Alfred Hitchcock viene chiarito in modo inequivocabile come in Notorious la palpitante spy story sia soltanto di facciata mentre il vero soggetto sia la storia d’amore fra Devlin e Alicia. In modo più scanzonato, esplicito e teorico il paradigma è del resto riformulato e stabilito una volta per tutte, nella filmografia di Hitch, con Intrigo internazionale. Nel 1946 Howard Hawks mette in scena la divorante love story tra Vivian e Philip Marlowe, in Il grande sonno, sotto copertura di un magistrale detective movie della cui vicenda è lo stesso regista che tiene a dire di non aver ben chiari tutti gli snodi (e l’esemplarità del film sta proprio, che lo si voglia o no, nel suo essere avvolto in questa insidiosa nebbia narrativa).
Il modo in cui due Maestri pensano l’amore e la coppia, però, è diverso, e neppure tanto sottilmente. Lo sguardo hitchockiano è, in fondo, profondamente segnato da una moralità ottocentesca; le peripezie dei suoi protagonisti, in quanto così trasgressive, non sono infine che un percorso a ostacoli lungo una storia di formazione che porta a una ricomposizione istituzionale di ruoli e norme sociali. Hawks ci mostra invece un affair che prende forma nell’esibizione del duetto/duello tra i due amanti come condizione necessaria (sul piano privato e su quello sociale), in cui si rispecchia inequivocabilmente la nascita di una nuova moralità (o immoralità, fate voi – dipende dai presupposti che si adottano) contemporanea fondata sull’incertezza dei ruoli e sulla reversibilità sentimentale sempre possibile. Non si dà come scontata, nel modello hawkskiano, la conferma conclusiva nella stabilità coniugale, e il percorso compiuto dai protagonisti è “di formazione” proprio in quanto li porta ad accettare la loro relazione e la felicità sessuale come dimensione precaria (e per questo ancora più preziosa).
L’attualità del punto di vista di Hawks emerge in tutta evidenza nei due film cui è dedicata la sezione Primo piano di questo numero di «Cineforum». Che, in entrambi i casi, raccontano innanzitutto una storia d’amore, intorno alla quale prendono forma e senso l’intreccio e il contesto. Ne conseguono con evidenza geometrica i due piani conclusivi: quello di Vizio di forma, che dichiara senza tergiversare la sua filiazione dal finale di Il grande sonno, ma anche quello di Blackhat, con la coppia che avanza, nell’aeroporto, dapprima in mezzo ai volti sfocati degli altri viaggiatori e poi svanendo fuori fuoco a sua volta, denunciando, in questa soluzione formale che si aggiunge al valore emblematico del luogo, la transitorietà cui è votata.
Resta il fatto che non si dà azione, investigazione, né la ricerca di sapere a esse congiunta, senza accompagnarsi a quella modalità trascendente di conoscenza che è – già nel racconto mitologico – insita nel rapporto amoroso. Figura dalla forza verosimilmente inesauribile, anche (e forse ancora di più) dal momento in cui abbiamo imparato ad accettarne il carattere ossimorico. L’amore, comunque, muove.