CINEFORUM / 557

Ascoltare la Terra

«La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (1). La citazione di Hesse con cui ho scelto di cominciare questo contributo ci ricorda chi sono quegli uomini saggi che in molte tradizioni sono chiamati sciamani. Parafrasando il testo di Kahili King A scuola dallo sciamano e ricordando il classico di Castaneda a cui si richiama (2), possiamo riassumere le sue caratteristiche parlando di percezione dell’unità dell’universo come espansione della coscienza, di collegamento con la sacralità della vita e con il senso d’amore e di connessione con il tutto, di rispetto per la natura in tutti i suoi aspetti, di ascolto di ciò che ci circonda e di noi stessi quindi di consapevolezza, di capacità di dare un senso alle cose anche nel tempo (continuità, tradizioni, memoria), di saggezza anche come fluidità nell’andare nella vita, di capacità di entrare e uscire dalla trance, di conoscenza degli animali di potere e degli animali guida, di capacità di contemplazione ma anche d’azione e di trasformazione, di capacità di viaggiare tra i mondi visibile e invisibile.

Sciamano era considerato anche Carl Gustav Jung; ne parla Eldo Stellucci in un saggio interessante, che parte dall’individuazione dei tratti tipici di questi esseri: «Se lo sciamano imita il canto degli uccelli […] e conosce il linguaggio della natura, questo è soltanto un simbolo della sua capacità di vivere in una stretta unione con essa. Se nella sua trance si reca nell’aldilà, nei «mondi altri» per strappare l’anima che è stata rubata all’ammalato, ciò sta a dimostrare la grande dimensione spirituale che è comune alla salute. Lo sciamano usava tremila anni fa attraverso le sue «tecniche dell’estasi» quelle tecniche di gruppo che oggi riscopriamo […]. Significativo è che lo spirito dello sciamano possa lasciare il proprio corpo e vagare intenzionalmente nei “mondi altri” dove egli cerca l’anima perduta del malato, restituendola. Ma lo sciamano è soprattutto in grado di curare la più terribile forma di malattia primitiva: la perdita dell’anima» (3).

Tutto questo ci consente di avvicinarci a El abrazo de la serpiente e a uno dei suoi temi chiave, la perdita dell’anima e il percorso che si è tenuti a fare, se si ha il coraggio necessario (4), per recuperarla e cioè per recuperare la propria integrità, in relazione con il tutto che ci circonda. Karamakate, lo sciamano del film (“colui che muove il mondo”), lo fa nella seconda parte della sua vita recuperando la memoria e uscendo dalla condizione di chullachaqui (persona vuota, svuotata) in cui era finito dopo la distruzione del suo popolo da parte dei “signori del caucciù” (siamo all’inizio del Novecento, nel pieno dello scempio della foresta amazzonica per questo motivo, che si è svolto tra 1879 e 1912 con un’appendice tra 1942 e 1945) e dopo il contatto con il primo “bianco” a lui rivoltosi; Theodor Von Martius, l’uomo in questione, etnologo tedesco che ha vissuto per quattro anni nella foresta amazzonica e che si è rivolto allo sciamano per trovare la pianta che avrebbe potuto guarirlo dalla malattia che l’ha poi effettivamente fatto morire in quei luoghi, lo fa entrando nella foresta e subendo le trasformazioni che questa porta, ben espresse nella didascalia che apre il film (5).

E l’opera verte in effetti su questo: sul cammino di purificazione che gli uomini sono chiamati a fare se vogliono evolvere e sul senso di quest’evoluzione, nella differenza tra la cultura tradizionale degli indios dell’Amazzonia, che il regista Ciro Guerra vuole recuperare in quanto poco rappresentata al cinema o comunque rappresentata dall’esterno e non dal punto di vista di chi la vive, e la cultura occidentale con la razionalità che la caratterizza, esemplificata dai due scienziati che contattano lo sciamano, entrambi realmente esistiti e conosciuti attraverso i diari di viaggio che hanno lasciato.

Del primo, Theodor Koch-Grunberg (1872-1924), magistralmente interpretato da Jan Bijvoet, abbiamo detto; il secondo, Evan (Richard Evans Schultes, 1915-2001), è un biologo americano che arriva in Amazzonia trent’anni dopo Von Martius, sull’onda della lettura del suo libro, e che vuole trovare la stessa pianta sacra, la yakruna, non per fini terapeutici ma per poter sognare. Karamakate lo accoglie e gli dice che gli uomini del suo popolo, i Cohiuani, per diventare guerrieri devono lasciare tutto e andare nella giungla per capire chi sono, guidati solo dai propri sogni; e lo spinge verso un percorso iniziatico che si compirà a fine film, tanto che al risveglio dal viaggio interiore che si troverà a fare grazie alla yakruna Evan non troverà Karamakate ma la sua collana, simbolo della nuova forza che ha acquisito. Lo sciamano si è infatti reso conto, accompagnandolo nella ricerca della pianta sacra, che la sua missione non era portare la conoscenza al suo popolo, di cui ha trovato solo pochi superstiti rovinati dall’alcol e da un progresso incombente che passa per lo sfruttamento irrispettoso delle risorse e per la “colonizzazione” anche culturale e religiosa, ma a lui, per farlo tornare “uomo intero” quindi uomo che, simbolicamente, può affiancare alla mente l’istinto e il cuore. Dopo che il serpente (l’anaconda, che nella tradizione amazzonica ha generato gli uomini e poi è ascesa al cielo dando vita alla Via Lattea) l’avrà preso nel suo abbraccio e l’avrà “portato in luoghi antichi”. A sua volta Karamakate, che non era riuscito ad accogliere Von Martius a causa del rancore che provava per i “bianchi” e l’aveva a un certo punto abbandonato al suo destino, può riscattarsi attraverso Evan e recuperare la memoria di sé e della storia del suo popolo; in questo non hanno importanza le reali intenzioni dell’uomo, che non sono pure come quelle del primo, perché per lo sciamano, che vive in una concezione del tempo diversa da quella lineare propria dell’Occidente (6), i due uomini sono lo stesso uomo, quindi Evan è Von Martius tornato a lui per fargli compiere l’ultima parte del suo percorso sulla terra, e svelargli il senso della sua missione.

Con questo arriviamo a Guerra e a quello che lo interessava sopra a tutto: usare il cinema per veicolare messaggi ed emozioni impossibili da portare al pubblico in modo realistico, come un viaggio nell’invisibile e nell’irreale. In effetti il film è meraviglioso; è poesia, visiva e sonora; è penetrazione vera in una giungla che in un primo momento, fino a quando la troupe non si è rivolta ai suoi saggi, non voleva aprirsi e disvelarsi, e che bisogna saper ascoltare e trattare con rispetto (7). È una sorta di apologo iniziatico, un “sogno amazzonico” come sottotitola la locandina colombiana, un racconto dal valore simbolico; ma da un altro punto di vista è realistico e il realismo è dato dalla credibilità dei personaggi e delle situazioni, compreso uno sciamano che all’inizio della storia è chiuso in se stesso e rancoroso e che ha bisogno degli altri per riaprirsi alla vita, dall’autenticità che si respira dall’inizio alla fine e che è data anche dal rispetto con cui Guerra si è accostato a questo mondo e a questi temi, e da un uso del b.n. che richiama quello del Wenders di Il sale della terra. Un altro aspetto importante da considerare, a questo proposito, sono le ascendenze cinematografiche: Guerra è un cinefilo che oltre ad aver fatto altri due film che hanno partecipato a festival internazionali (8) e oltre ad omaggiare il nuovo cinema della propria terra richiamando nei temi Acevedo, cita film e autori a lui cari: l’Herzog di Fitzcarraldo e di Aguirre, furore di Dio, Apocalypse Now e Malick (specie per The New World – Il nuovo mondo) più direttamente, ma anche 2001: Odissea nello spazio per l’unica sequenza a colori, Jodorowsky, Vulcano e volendo Mission, La terra degli uomini rossi, Colonia… Ma queste citazioni non sono mai forzate e il risultato è un film che è anche difficile da descrivere, per la grazia con cui fluisce come il fiume su cui scorre la canoa che porta lo sciamano, e le farfalle che circondano prima lui, e poi il nuovo Evan. Prima che i titoli di coda, con le foto dei protagonisti reali, mostrino la dedica «alla memoria dei popoli di cui non conosceremo mai il canto».

 

(1) Hermann Hesse, Siddharta, Adelphi, Milano 1988, pag. 93.

(2) Carlos Castaneda, A scuola dallo stregone, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1970.

(3) Eldo Stellucci, Jung e lo sciamanesimo: un viaggio tra sincronicità ed evoluzione della coscienza, in www.fuocosacro.com/pagine/articoli/JUNGELOSCIAMANESIMO. Per la relazione tra Jung e lo sciamanesimo segnaliamo anche il recente C. Michael Smith, Jung e lo sciamanesimo – L’anima fra psicanalisi e sciamanesimo, Amrita, Giaveno (TO) 2016.

(4) «Solo al coraggioso il mondo si apre completamente; solo chi percorre la sua strada con fermezza e nonostante tutti gli ostacoli, apprende il potere dello Spirito» (E. Kurt Schweighardt in Agnese Sartori, Il segreto dell’aquila, Ed. Mediterranee, Roma 2000, pag. 34).

(5) «Non mi è possibile sapere se l’infinita foresta ha già intrapreso su di me il processo che ha portato tanti altri alla totale e irrimediabile pazzia. Se così fosse, non mi resta che chiederti scusa e pregare la tua comprensione, dal momento che la grandezza che ho sperimentato in quelle ore è stata così forte che mi è impossibile descriverla con un linguaggio consono a comunicare tanto splendore: so solo che al mio ritorno ero già divenuto un altro uomo».

(6) Ciro Guerra ha parlato in questo senso di «time without time» e di «space without space», per dire di una serie di universi che “accadono” simultaneamente.

(7) «Se tu la rispetti la Selva non ti nuocerà, anzi, ti farà dei regali. Ma se tu non vai col cuore puro puoi anche morire. Gli Spiriti della Selva sono ovunque, anche travestiti da giaguaro… ti riconoscono, leggono nel tuo cuore… attenta, quando vai, a non commettere atti di violenza contro la Natura, neanche col pensiero» (Agnese Sartori, op. cit., p. 148).

(8) Questo, presente in molti festival internazionali, ha vinto il premio della Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2015 ed era candidato all’Oscar 2016 come film straniero.