CINEFORUM / 557

Mario Soldati, la mano (registica) dello scrittore

«La grande arte è sempre individuale quand'anche il gusto di un'epoca e di una società è individuale, personale, psicologico: per esempio nelle epoche scettiche, razionali, fortemente civilizzate. Ma la grande arte è collettiva nelle epoche e nelle società mistiche, religiose: quando c'è della gente unita in una sola fede e in un solo entusiasmo, o magari in una sola disperazione e in un solo smarrimento…». Queste le parole di Mario Soldati, durante una conversazione tenuta a Firenze sessant'anni fa e riportata su un piccolo, prezioso quaderno di documentazione curato da Francesco Bolzoni, che annovera altre non meno stimolanti osservazioni sul rapporto tra arte, cinema e scrittura, secondo il duplice punto di vista di chi recepisce e fa cultura. Come appunto Soldati, che nella testimonianza in oggetto non può non prescindere dalla propria esperienza nei vari campi culturali che lo videro poliedrico protagonista.

Quanto sopra, per introdurre un riesame della sua produzione cinematografica, con occhio magari più esegetico di quello che il cinema italiano le ha riservato per quasi mezzo secolo, ché tale opera sembra non avere una cifra stilistica autenticamente identificabile, un'impronta riconoscibile che permetta d'individuare la mano dell'artista anche in progetti non ambiziosi ma più semplici e personali, non privi comunque di novità se si considera il periodo in cui furono realizzati. La retrospettiva che “Il Cinema Ritrovato,” nella sua trentesima edizione, dedica a Soldati mira a rifare il punto su un autore che, dagli anni bui di regime degli inizi fino a quelli della televisione – per la quale firmò documentari e inchieste di considerevole importanza – ha offerto il proprio contributo alla cultura senza esserne, forse, ripagato con giustizia. Quasi inducesse a sospettare un denominatore comune, il festival bolognese compie in sostanza la stessa operazione che, lo scorso anno, ha visto riesaminare un altro nome della cinematografia nostrana “minore,” non meno trascurato: quel Castellani per molto tempo etichettato, in maniera anche dispregiativa, come cineasta “calligrafico.” Nell'identica misura in cui lo fu lui, Soldati.

Quel calligrafismo presente in celebri titoli quali Piccolo mondo antico e Malombra, insegnano gli storici, più che alla sostanza guarda alla forma: dalla ricostruzione d'ambiente al décor, dalla cura del paesaggio all'assortimento di esterni e interni, all'introspezione psicologica. Ma è solo uno dei tasselli attraverso cui si pensa al cinema di Soldati, per sua stessa ammissione letterato capitato per caso, e malvolentieri, nel mondo del cinema. Di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, l'apprendistato del giovane Mario comincia in qualità di sceneggiatore e adattatore di dialoghi per i due registi italiani più importanti dell'epoca, Blasetti e (soprattutto) Camerini. Molte delle pellicole cui collabora sono trasposizioni letterarie – da Alarcón a Thomas Hardy, sino a Pirandello – che ne plasmano il passaggio alla macchina da presa rinfocolandone l'amore, già fervido, per la pagina scritta. Contendendo al collega e collaboratore Zavattini, anch'egli scrittore prestato alla Settima Arte, Soldati costella la propria filmografia di nomi autorevoli della letteratura: se non si tratta di firme da cui evincere spunti (oltre a Pirandello si ricordano Balzac, Bersezio, Salgari, Moravia, Greene, Tolstòj), possono essere firme di colleghi con cui collaborare alla stesura degli script (come Bassani, Flaiano o De Feo), in qualche modo anticipando ciò che anni dopo Pasolini avrebbe ripreso utilizzando poeti e scrittori come voci e corpi in tanti suoi film.

L'uomo colto, che il cinema sa cos'è e lo respira pur non idolatrandolo, trasmette alla sceneggiatura più ancora che al tocco registico i preziosi suggerimenti dei maestri, si chiamino essi Clair, Lubitsch, Hitchcock. Ecco che nei lavori tratti da Fogazzaro – attraverso cui il nome di Soldati inizia a farsi strada nella produzione cinematografica – i chiaroscuri e le penombre nella fotografia, le raffinate e sontuose scenografie, le psicologie dei personaggi principali e secondari, egualmente sono frutto di una ricercatezza stilistica in apparenza fine a se stessa, in verità debitrice di un'elaborazione personale a un tempo filmologica e letteraria. Si può storcere il naso nei confronti delle opere in costume, che impongono l'atmosfera decadente della pagina scritta, più tardi sublimata dalla maestria di Visconti o dall'artigianato di altri; ma non si può obiettare, e forse è questo l'aspetto oggi più interessante, che, dietro lo sfarzo della ricostruzione, vivida sia l'attenzione alla definizione delle figure al centro, alla loro caratterizzazione, allo sviluppo psicologico poco a poco innescato dal tessuto narrativo.

Su tali piste occorrerebbe ripensare all'opera cinematografica di Soldati, benché una personale di soli sette lungometraggi, un corto e il segmento di un film corale, per quanto esauriente, risulti comunque non restituire un quadro completo del cineasta. Né del suo sguardo, freddo e passionale nei lavori prima maniera, che vira verso nuovi registri e, senza abbandonare la predilezione per la pagina, opta per una traslazione in linea col mutamento di tempi, gusti e mode, mettendosi alla prova in un differente tipo di cinema attraverso modi più magniloquenti. Il che spiegherebbe la sua partecipazione diretta nelle riprese di kolossal hollywoodiani girati a Cinecittà (Guerra e pace, ma soprattutto la mitica corsa delle bighe in Ben Hur).

Soldati in primis si risentiva, a fronte di colleghi illustri quanto ingrati che non gli tributavano la scoperta di eccellenti caratteristi come Giacinto Molteni. Ma sarebbe ingiusto non considerare il regista di La provinciale come un valido direttore di attori, e soprattutto di attrici, testimoniato dagli impieghi di Alida Valli, Isa Miranda, Myriam Bru, la Lollobrigida: quanto a dire che l'importanza per l'attività di Soldati, nel solco della cultura italiana, dipende anche, se non altro, da fattori come questo. Sulla falsariga di un altro modello classico d'ispirazione, George Cukor, Mario è un atipico women's director concentrato su disegni al femminile, il cui tratto psicologico discretamente si adatta agli sguardi delle sue interpreti. Nell'esordio da solista, Dora Nelson, rifacimento di una commedia francese incentrata sul topos del sosia, il duplice ruolo di modesta operaia e insopportabile diva dello schermo offerto da Assia Noris (per la quale Soldati non prova particolare simpatia) induce la prima, di stampo più popolare e umano, a rimpiazzare la seconda in un crescendo di equivoci e imbarazzi in cui, va da sé, il privato si confonde col pubblico, e viceversa.

La lezione ereditata da Camerini permette all'allievo Soldati, in una delle prime occasioni, di sperimentare l'espediente metacinematografico del film nel film – fattore inconsueto che ulteriormente suggerirebbe una revisione filmologica dell'intellettuale torinese – nella misura in cui un altro stratagemma, in pellicole successive, è la narrazione in flashback, nella quale le parentesi al passato si susseguono incessanti nella ricomposizione del mosaico. Ma oltre ai ritratti femminili, Mario non trascura il ruolo maschile, talora modesto e umile, altrove intellettuale e snob, che gli eventi all'occorrenza trasformano in uomini d'azione. Né andrebbe omessa la scelta di concedere a molte figure secondarie interventi rilevanti, perlopiù volti a sciogliere enigmi (si pensi all'ottico Emilio di Dora Nelson, al padre Tosi o all'anziano servo di Malombra o al musicista ambulante di Fuga in Francia). E a dispetto del disegno forte e vigoroso gradito al regime, Soldati delinea una tipologia di maschio da ritenersi eversiva, dunque invisa, che suona come un abbinamento “irritante” del ruolo sessuale: quella del sognatore delicato e femmineo, che insegue alti ideali di bellezza e nobiltà d'animo, come Franco in Piccolo mondo antico o Corrado in Malombra.

Le sette pellicole scelte dal festival offrono allo spettatore un alternarsi di città italiane in cui l'amore di Soldati per il Piemonte, spesso utilizzato quale sfondo, sterza verso Lucca, Venezia, Trieste, e si stempera in atmosfere romantico-crepuscolari ottocentesche o in piccole grandi miserie quotidiane. Il sorriso, dovuto a stati emotivi quando non a ironia o a situazioni buffonesche, fa capolino in ciascuno dei contesti al centro: si palpita per la malaugurata sorte che incombe su Marina o sulla piccola Ombretta, e tuttavia l'epilogo lascia intravedere, se non lieti fini, tenui speranze. Quella speranza che, altresì, riescono a trovare Gemma o i piccoli Fabrizio e Roger dopo interminabili travagli; per tacere dell'onesto Travet, che le meschinità di un'esistenza grama, di padre di famiglia frustrato e impiegato dimesso, non aiutano a valicare subdoli complotti, in qualche altro caso orditi da sinistre figure o da potenze straniere. La mescolanza di mélo e commedia, romanzo storico o in costume, noir e giallo, fanno della filmografia di Soldati qualcosa d'insolito, o meglio, d'inclassificabile: lo sguardo dell'acuto osservatore, che insinua nella finzione elementi raccolti dalla realtà del proprio tempo, fa il paio con le contraddizioni e gli egoismi di un assetto sociale, borghese e meno abbiente, non troppo dissimile nel presente e nel passato. Come mostra Il ventaglino, dall'episodico Questa è la vita, nel quale, al pari di altre occasioni, la letterarietà ben si concilia con la politique dello scrittore-regista.

Resta da spendere qualche parola sui ricchi casting di Soldati – Campanini, Cervi, Ferzetti, Foà, Franco Interlenghi, Folco Lulli, gli esordienti Girotti e Serato, lo stesso Pietro Germi, un Sordi già calato nella nota maschera, gli stranieri Trevor Howard e Richard Basehart. E sul percorso autobiografico di lavori come Fuga in Francia e lo short simil-neorealista Chi è Dio?, a testimoniare la volontà di porre il proprio ricordo al servizio di un cinema in cui finzione e documentario si fondono, restituendo esiti in cui il realismo si sposa all'originalità senza sospetti di calligrafismo o di formalismo.