CINEFORUM / 558

Evoluzione (estrema?) del blockbuster d'azione

Jason Bourne di Paul Greengrass

Pareva un filone esaurito, e invece, evidentemente, la saga rende ancora parecchio. Quarto capitolo della serie (con l'intermezzo, nel 2012, di The Bourne Legacy, diretto dallo sceneggiatore dei primi tre episodi Tony Gilroy, in cui Bourne è assente, anche se continuamente evocato), nove anni dopo The Bourne Ultimatum (2007), terza pellicola realizzata dal padre adottivo del personaggio, Paul Greengrass, dopo che Doug Liman ne inaugurò le gesta sul grande schermo nell'ormai lontano 2002, dotando di carne, sangue e adrenalina il personaggio creato da Robert Ludlum. Nei tre capitoli precedenti, Jason aveva ormai scoperto tutto ciò che c'era da sapere sulla sua precedente identità e sulla natura della sua indole dopo essere stato ritrovato con due pallottole conficcate nella schiena da un peschereccio italiano al largo della Liguria. La domanda su cui si erano soffermati Greengrass e Damon e alla quale, nel 2007, pareva non potesse esserci risposta valida per rinvigorire il filone, si concentrava sul come generare un nuovo nucleo di interesse che affrontasse interrogativi differenti da quelli sviluppati precedentemente. Terminata la ricerca di una sceneggiatura valida e trascorsa una pausa fisiologica di qualche anno che ne facesse avvertire la mancanza, Bourne è tornato. E pare che la scelta sia stata vincente, poiché il film ha incassato più degli altri precedenti e già fortunati episodi. 
Il quesito su come rinverdire l'interesse per l'eroe nonostante le informazioni ormai assodate sul suo passato è aggirato semplicemente facendo nuovamente diventare Bourne un possibile bersaglio per la CIA ed evocandone un doloroso ricordo, quello della morte paterna a Beirut, davanti ai suoi occhi, ricorrendo al solito escamotage delle tracce mnestiche che sbrecciano il muro eretto sul suo passato. La novità, rispetto agli esempi precedenti, è l'inserimento della vicenda di Bourne in un percorso di – grosso modo – rigida attualità, che tra i fumi di un terrorismo sempre aleggiante coinvolge la crisi economica greca e l'ipotesi di controllo dati dei social network (anche se, a pensarci, le notizie sulla crisi greca, da quando Tsipras è stato rieletto e complici le dimissioni di qualche tempo prima del fenomeno mediatico Varoufakis, è come se si fossero letteralmente eclissate). Il primo elemento, la crisi greca, appunto, è un pretesto d'ambientazione. Il secondo è coerente con il senso di impellente paranoia sotteso a tutto il filone Bourne e alla pratica di controllo globale che ciclicamente, seppur con dinamiche e procedimenti differenti, informa il cinema americano almeno dall'inizio degli anni Settanta (prima esistevano altre paranoie: quelle dell'invasione e della sostituzione). 

Trovandosi in piazza Syntagma durante una manifestazione contro le misure d'austerità volute dal governo greco, secondo quella tendenza per cui le strutture delle spy stories à la Bond sono dettate dall'impatto scenografico delle locations urbane, raggiunte con un andirivieni incessante, incurante del jet lag (Anthony Lane sul «New Yorker» scrive: «The new film racks up the air miles»), Bourne è protagonista di una sequenza spettacolare (ça va sans dire) che entrerà a pieno diritto nell'antologia del genere. L'eroe dalla cortissima memoria è dapprima inserito quasi documentaristicamente all'interno dello scenario caratterizzato da masse turbolente, slogan, tentativi infruttuosi di contenimento della polizia, fiamme improvvise generate da molotov, muovendosi a piedi nel marasma mentre riceve le notizie fornitegli dalla hacker Nicky Parsons. Poi, quando è braccato da un paio di squadre di sicari e da un killer (Vincent Cassel, che con grande spirito d'abnegazione lo seguirà per tutto il film), quella stessa massa diventerà un ostacolo e lo sfondo che prima attraversava con frettolosa disinvoltura si animerà di minacce mozzafiato da superare con una moto rubata alla polizia.
L'altro versante d'attualità è quello rappresentato dal personaggio di Aaron Kalloor, le cui affinità con Zuckerberg sono tutt'altro che casuali, malgrado le dichiarazioni di facciata degli autori e dell'attore che lo interpreta (Riz Ahmed). La sua Deep Dream e il controllo su di essa da parte della CIA con lo scopo di garantire la sicurezza costituiscono l'incubo della maggior parte degli utenti dei social e anche una controversia di inestricabile soluzione (non solo per un film). Più interessante, benché solo accennato, il dissidio che incarna Kalloor (e che riguarda non solo Zuckerberg, ma anche Assange, Snowden e compagnia rivelante), quello tra missione ideale e sviluppo dell'ego, argomento che oltre il cinema anche la letteratura sta cominciando ad affrontare (si pensi all'Andreas Wolf del recente Purity di Jonathan Franzen, in cui, in un conflitto intimo di ben altra profondità, l'ego prende il sopravvento su un'idealità costruita probabilmente solo per gratificarne gli appetiti). 
Non è tuttavia l'unico conflitto presente in Jason Bourne: meno appariscente ma sicuramente più riuscito è il confronto tra vecchio e nuovo, in cui quest'ultimo è rappresentato dall'astro nascente Alicia Vikander nei panni di Heather Lee, assistente del capo della CIA Tommy Lee Jones, sul cui volto sono incise le profonde crepe del tempo. Il loro scontro generazionale è anche quello, riferito a Bourne, tra eliminazione e integrazione, tra il pericolo che incarna l'agente e l'utile risorsa che potrebbe rappresentare. Anche tra punizione e perdono, se si volesse adottare, e senza paura di esagerare, una chiave biblica giustificata dall'aura demiurgica del direttore della CIA. E Alicia Vikander, al di là della storia narrata, è anche un ponte con l'ipotetico quinto episodio di una serie che dopo la pausa e l'attuale nuovo successo godrà quasi certamente di una nuova giovinezza. 
Uno degli aspetti più interessanti del film è comunque l'analisi diacronica delle scene d'azione corpo a corpo. Jason Bourne rappresenta un punto estremo di un'evoluzione stilistica che risulta fondamentale perché dice moltissimo anche, e soprattutto, sul mutamento estetico dei blockbuster d'azione degli ultimi quindici anni. Il sito fandor.com, in un simpatico supercut, ha ripercorso fin da The Bourne Identity le modalità di messa in scena, ripresa e montaggio delle più celebri scazzottate di ogni film e il risultato è una continua progressione verso il frammento impressionistico. Se nel primo film Doug Liman usava obiettivi a focale corta (per ampliare lo spazio della visione) e seguiva con una discreta stabilità della macchina da presa i movimenti dei contendenti, Greengrass, in The Bourne Supremacy, ha eliminato qualunque commento musicale per aumentare il realismo dei colpi e ha adottato lenti con focale più lunga per concentrarsi sul conflitto dei personaggi (restringendo l'ampiezza della ripresa), utilizzando, contemporaneamente, una cinepresa a mano e soffermandosi sullo scontro con piani di una certa durata per esaltarne il crudo realismo. 
Tendenza invertita drasticamente in The Bourne Ultimatum, nel quale i piani diminuiscono sensibilmente la loro durata, mentre la macchina a mano si fa ancora più nervosa, così che i movimenti all'interno delle singole celeri inquadrature diventano spezzati, catturando la tesa attenzione del pubblico pur a scapito della completa leggibilità della scena. Jason Bourne sposta l'asticella ancora oltre. La scazzottata finale tra Matt Damon e Vincent Cassel è un autentico puzzle di colpi, parate, schivate e acrobazie restituito nella penombra chiaroscurata di un tunnel nei pressi dell'Hotel Riviera, Las Vegas, con un montaggio schizofrenico, velocissimo, saturo di salti di campo, spostamenti interni al piano, rapidi raccordi su un asse che si fa fatica a individuare. Dall'ipercinesi al frammento eidetico, l'idea che si fa flash percettivo, tutto in soli quattordici anni. A pensare ai prossimi quattordici si rimane vittima di una vertigine percettiva. Anche se i maligni dicono che sia solo un incipiente mal di testa.