CINEFORUM / 558

Tengo famiglia

Se proviamo a pensare al cinema come al primo social media sui generis, possiamo coglierne tutta la forza nel modo con cui, attraverso i meccanismi dell’identificazione e del transfert, ha saputo imporre alle masse del XX secolo la progressiva e quasi impercettibile (ma irresistibile) rinuncia a ogni idea consolidata di sfera del privato. Non che la tendenza a mettere il naso nelle questioni di famiglia altrui non fosse già stata presa in considerazione in precedenza… Qualche nome a caso: Agamennone/Egisto/Clitennestra/Oreste, Laio/Giocasta/Edipo. L’idea stessa di rappresentazione, e dunque di spettacolo, si basa sulla possibilità di mostrare agli occhi di un pubblico estraneo le vicende più private di alcuni personaggi per trarne insieme svago e insegnamento, consolazione e preoccupazione. E il principio della violazione dell’intimità familiare per disvelarne fatti e misfatti è sicuramente una delle esche più ghiotte con cui attirare gli spettatori in cerca di emozioni nella violazione di quel principio – valido almeno a parole – che i panni sporchi…
Le famiglie accumulano panni sporchi in abbondanza e il cinema non si è fatto mai scrupolo di negare a se stesso e ai suoi spettatori di andare a darci un’occhiata. Il voyeurismo, eccetera. Anche oggi, quando appunto il dilagare della pratica social e dell’abbattimento progressivo dei limiti in cui considerare privato il “privato” sembrerebbe dover spegnere questo genere di interesse, tutto in realtà prosegue senza cambiamenti. Lo dimostra questo numero di «Cineforum» con la sua concentrazione di film che presentano i nuclei familiari più differenti come argomento di narrazione, indagine, vivisezione. 
A fare la parte del leone sono senza dubbio i Puccio,sequestratori e assassini che Pablo Trapero ci sciorina davanti nel suo El clan dipingendoci uno spaccato argentino dei primi anni Ottanta non poi così estraneo per chi si ricorda l’Italia di qualche anno prima. Ma i Brufort antropofagi insieme ai Van Peteghem catafratti nel loro privilegiato terrore per il mondo che li circonda, tutti quanti messi in scena da Bruno Dumont che prosegue, in Ma Loute, la sua personalissima epica della terra del Nord Pas de Calais, non sono certo meno generosi nell’offrirci il piacere di mettere occhi e mani tra lapsus, prodigi e frattaglie a conduzione squisitamente familiare. In chiave di certo più meditativa ma non meno disorientante si passa, con Un padre, una figlia a considerare come i legami familiari possano fare strame di ogni principio etico, soprattutto quando questi ultimi cerchino di trovare luogo in un regime di diffusa insicurezza sociale. Con buona pace dei valori civili e del rispetto delle regole. Altrettanto paludoso può essere il terreno su cui si muove la relazione affettiva tra una madre e un figlio, come ci mostra Julie Delpy in Lolo; e questa figura di madre single ci fa da ponte per arrivare alla scelta radicale di Erik Gandini che ci parla di famiglia mostrandocene la polverizzazione definitiva in una società di single, di individui che bastano a se stessi. Per legge. Rivendicando il diritto alla nostalgia per un mondo in cui la solidarietà partiva dal legame tra un gruppo di persone conviventi nella stessa casa.
Inutile negarlo: non c’è materiale migliore della famiglia per scatenare curiosità impertinenti, ipotesi dinamitarde, la domanda d’amore più indifesa e i sarcasmi più taglienti. Possiamo stare sicuri che il cinema continuerà a farlo.