CINEFORUM / 575

Manuel

Ci sono film che parlano anche se non sono perfetti. Ci sono film, anzi, che parlano molto più forte, si fanno sentire e capire molto più bene, dei film tecnicamente perfetti. Manuel è uno di questi: piccolo, tecnicamente incerto, ma capace di trasmettere allo spettatore qualcosa di forte attraverso dei canali che, in una intelaiatura che vorrebbe sovrascrivere la realtà, si avvertono invisibili. Dario Albertini viene dal documentario, e così questo film, che nasce in lui come una necessità dopo La repubblica dei ragazzi, girato nell'arco di alcuni anni in una casa famiglia di Roma. Il regista sentiva di non essere riuscito a raccontare abbastanza, in particolare quello che sentiva di non aver colto è il momento in cui un ragazzo cresciuto in una casa famiglia diventa maggiorenne e deve lasciarla: una fase molto delicata, soprattutto se la famiglia di ritorno ha in sé dei nodi problematici che sono stati la base dell'allontanamento da essa.

Il documentario sembrava ad Albertini la forma più consona con cui proseguire questo discorso, e l'intento originario era quella di lavorare con il vero Manuel, ma quando ha deciso di affidarsi alla finzione per scandagliare al meglio il tema, l'idea di forzare la realtà con il vero protagonista gli è sembrata irrispettosa. L'incontro con Andrea Lattanzi, qui al suo primo ruolo da protagonista, è stato fortuito ed illuminante: con lui, incline fisiologicamente all'improvvisazione, Albertini ha potuto portare avanti la sua idea di far scorrere il film secondo una cronologia naturale, girando le scene in ordine di accadimento, fornendo agli attori solo degli spunti quotidiani da seguire, lasciando che l'oggetto film prendesse forma senza troppi tagli di montaggio. Il risultato è un materiale molto grezzo, che di tecnicamente cinematografico ha poco, ma che vive e brilla di suggestioni: la mimica, la recitazione naturalistica di Lattanzi, sono la chiave di volta di una vicenda prettamente umana che coinvolge attraverso una visceralità sofferente che è l'esatto specchio di un' anima giovanissima caricata a molla di responsabilità precoci.

Manuel si aggira assorto in una periferia dismessa, la sua figura è tagliente come un personaggio dei fumetti di Andrea Pazienza, e noi riusciamo a vedere le pieghe della paura farsi spazio nella sua anima, come piccoli cerchi concentrici che si allargano senza che nessuno abbia dato loro il nome di ansia, di fame d'aria. Albertini denuncia le sue intenzioni sulla carta quando ci mostra i momenti chiave da una prospettiva distanziata, muti, attraverso una finestra, ad esempio, oppure sottolineando con i movimenti di macchina alcuni concetti, come l'intimità violata di madre (una bravissima Francesca Antonelli) e figlio in un'aula di tribunale, con la scorta indifferente ai lati: questo procedimento risulta po' meccanico, ma, a sorpresa, non distrae dal pathos che crea nello spettatore, marcando una vicinanza insolita. Quella vicinanza che Manuel cerca di spiegare a un'assistente sociale compassata e con molti pregiudizi. Il concetto è semplice: lei è mia madre, e io sono suo figlio. Fine. Non importa se il rapporto è ribaltato, se Mamma Roma è a testa in giù: se devo farmi in quattro perché questa cosa funzioni, funzionerà. Anche se rimane la voglia di fuggire, e lo sguardo che ha sviato la telecamera per tutto il film viene congelato nell'ultimo frame forse volendo ricordare I 400 colpi di Truffaut (citato anche letteralmente in una scena d'amore che non può, da Baci rubati), intrappolato suo malgrado dalla finzione.