CINEFORUM / 576

Nato a Casal di Principe - Una storia vera

Per una volta non ci troviamo dinanzi a un prodotto seriale che guarda a un vasto pubblico, perché Nato a Casal di Principe si pone come un film piccolo e necessario, che conserva il sapore amaro che la verità sa suscitare. Il racconto della mafia e della camorra non deve obbligare a identificare inequivocabilmente e in maniera scontata territori che rimangono così segnati senza mezzi termini nell’immaginario negativo dello spettatore. Nello stesso tempo, raccontare la verità senza il richiamo ai toni della commedia non significa cercare a tutti i costi la polemica. Nel caso del film diretto con modi sobri e naturalistici da Bruno Oliviero si torna a parlare di un cinema che racconta la camorra come una dimensione che condizione la vita delle persone, il rapporto con la terra, la divisione tra colpevoli e innocenti, tra coloro che soccombono e coloro che invece lottano per sottrarsi alle dinamiche criminali e tentano di combattere le abitudini di paura e omertà.

Come succede sempre più di rado, il lavoro di Oliviero si cala nella dimensione del cinema d’impegno civile difendendo una tradizione che pare sovente dimenticata. La realtà è nei volti, nei nomi che risuonano familiari: i Bardellino, gli Schiavone. Il clan dei Casalesi, per anni indiscusso padrone del casertano, regnava nel luogo in cui per un ragazzo, nel 1989, nascere era un segno di sventura. Della vicenda raccontata fu involontario protagonista Amedeo Letizia, oggi produttore esecutivo e autore del romanzo autobiografico da cui il racconto prende le mosse: a Roma, nel 1989, Amedeo, attore che diverrà uno dei Ragazzi del muretto, è raggiunto dalla notizia che suo fratello Paolo è stato rapito dalla nativa Casal di Principe. Amedeo, che conosce la terra natia come il quartier generale della camorra casertana, sa che la scomparsa del fratello ha un’origine inequivocabile. Torna sulle tracce del fratello riaprendo quella ferita con un passato che si era illuso di potersi lasciare alle palle, e imbraccia ancora una volta il fucile, affiancato dal cugino adolescente.

La singolarità, nonché uno dei pregi, di Nato a Casal di Principe, si esprime nello sguardo che appare dalla parte delle vittime: le scene in cui il protagonista osserva di nascosto le sconcertanti gesta del clan dei casalesi rappresentano una versione invertita delle rappresentazioni in auge, perché qui l’azione non ha niente di trascinante o di spettacolare, mentre l’immagine cupa ed estranea a toni estetizzanti e si allinea con una narrazione scarna dove i luoghi sono cromaticamente desaturati. Interni dolenti ed esterni depauperati, in cui una madre (Donatella Finocchiaro), pur timorata di Dio, si rivela disposta a chiedere aiuto alla santona del posto e il padre (Massimiliano Gallo), è quasi il solo che pensa di poter risolvere le cose affidandosi alle forze dell’ordine. In questo luogo in cui “l’aria non è bbona” e dove le regole sono quelle del Far West più violento, il linguaggio del romanzo originale è (molto) fedelmente rispettato e l’impotenza delle vittime di fronte alla paura è reso da una serie di personaggi la cui ambiguità segna come vacua la pretesa delle ricerche.

La verità, così come l’attesa, permangono dopo vent’anni di disperate richieste e denunce da parte della famiglia per una degna sepoltura e il cadavere del figlio sparito durante una banale serata tra amici. Un dramma tangibile che riporta sempre a una farsa partenza, a sforzi non premiati, a un recinto di omertà delimitato da quelle parole dell’autorità che segnano di razionalità adombrante i confini da non oltrepassare nonostante il desiderio di giustizia.