CINEFORUM / 579

Il verdetto –The Children Act

«In questo tribunale si applica la legge, non la morale». Con questa lapidaria sentenza, il giudice Fiona Maye (Emma Thompson) chiude la prima causa in cui la vediamo impegnata, legata alla separazione chirurgica di due gemelli siamesi, ponendo sinteticamente le basi di quello che sarà il tema di fondo dell’intero film di Richard Eyre. Legge o morale, benessere o dignità, salute o fede sono infatti le dicotomie, spesso inconciliabili, che Il Verdetto – The Children Act, tratto dal romanzo di Ian McEwan La ballata di Adam Henry, indaga. E Fiona Maye non ha dubbi nel compiere una scelta tra l’uno o l’altro: se kantianamente distingue il diritto legale dalla morale e dal “dovere per il dovere”; e se altrettanto kantianamente non lascia spazio alle “false verità”, alle “morali eteronome”, una su tutte l’esistenza di un divino, finisce tuttavia per compiere il percorso inverso rispetto al filosofo tedesco, riponendo la sua cieca fiducia nella legge, certezza lineare a cui da sempre si appella, appiglio granitico che mantiene salde le sue convinzioni.

Non ha dubbi, pertanto, lei: Adam, il ragazzo malato di leucemia che rifiuta le trasfusioni per motivazioni religiose (essendo testimone di Geova, ritiene che nel sangue scorra l’anima e dunque ciò che dio ha donato all’uomo), ha diritto prima al benessere e alla salute, che alla sua dignità personale e al suo credo. Va salvato, in una netta imposizione di forza, anche andando contro il volere di quella famiglia che vede nella malattia una estrema prova di fede, anche andando contro le sue stesse parole, così ferme, forse sostenute dal terrore di essere espulso dalla comunità a cui appartiene e dalla paura ancor più grande di veder crollare il convincimento su cui poggia la sua esistenza.

Cos’è giusto, allora? Chi ha torto e chi ragione, in un braccio di ferro tra volontà di salvare la vita a ogni costo e desiderio di seguire il proprio cammino, senza peraltro imporlo ad altri, come lo stesso giovane sottolinea? Senza dare risposte, senza poggiare un peso maggiore su un piatto della bilancia piuttosto che sull’altro, Il Verdetto, sceneggiato dallo stesso McEwan, spezza ogni certezza, mette in crisi ogni convinzione. Tanto quella di Adam, portandolo prima a dubitare della sua fede e della sua famiglia (anche se, forse, più con una scrittura a tutti i costi perfetta, che con l’emergere di un profondo senso di smarrimento) per poi, subito dopo, spingerlo a capire che la verità assoluta non risiede nemmeno in quella scienza che per un attimo era parsa una risposta ovvia e a lungo taciutagli; quanto quelle di Fiona, donna forte, almeno pubblicamente, che tuttavia, tassello dopo tassello, si sgretola nel privato della vita coniugale.

Sposata a un uomo (Stanley Tucci) che, come lei, vive agli antipodi rispetto alla famiglia Henry – lo comprendiamo quando a lezione cita Flaubert ai suoi studenti, nel delineare un’epoca priva del divino –, è proprio nell’intimità delle mura domestiche che il giudice perde il controllo sul mondo e comprende come le sue certezze fondate su leggi, siano esse proprie di un tribunale o di un matrimonio, possano sfuggirle di mano, in un’escalation che va dall’annuncio di futuro tradimento del marito (quasi un parallelismo all’altro recente film sceneggiato da McEwan, Chesil Beach), al pianto disperato in chiusura del film.