CINEFORUM / 582

Una promessa di mondo

«Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all'altro, l'invocazione all'altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all'altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell'altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell'altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità».

(Emmanuel Lévinas)

 

Prima di raccontare le caratteristiche di un delimitato luogo da raggiungere e difendere, in cui i draghi nascono e si rifugiano come in un nido, il mondo nascosto a cui fa riferimento il titolo del terzo capitolo della saga di Dragon Trainer, mette in scena un modo di essere, di guardare e di rapportarsi alle cose senza impurità. Quando nel finale Hiccup trova l’aiuto salvifico di Sdentato e della Furia Chiara aprendo definitivamente gli occhi sul futuro dei draghi, rendendosi conto che le amate creature per il loro bene hanno bisogno di tornare a vivere nella natura incontaminata, dimostra di avere imparato la lezione più importante della sua vita: amare significa rendere l’altro libero. Da luogo geografico rintracciabile, il mondo nascosto diventa luogo spirituale da far emergere, da obbiettivo possibile si manifesta in modo epifanico come appello al decentramento. Il film allora ci fa assistere a un irreversibile riorientamento dello sguardo sull’Altro: da ora non più soltanto oggetto da dominare e possedere ma soggetto con cui interagire, di cui prendersi cura, volto da cercare, abitare e custodire con i propri affetti, limiti, le proprie memorie e aspettative. Un ribaltamento che apre all’aldilà del mondo che l’altro è, generando un rapporto formidabile che oltrepassa l’utile rendendo l’altro libero: in virtù di questa reciprocità, le strade di Hiccup e Sdentato si separeranno ma condivideranno simile destino adempiendo alla promessa di vita insieme alle rispettive compagne (Astrid e Furia Chiara) e di governo dei rispettivi Regni.

Ad essere tenuta nascosta, quindi, è questa idea di mondanità di spielberghiana memoria: il rapporto Hiccup-Sdentato rivela che l’io si pone di fronte a un qualcosa di esterno, cioè a un ente che è radicalmente altro e lo conferma come tale (non accade questo in Spielberg? da Duel a Incontri ravvicinati, da Lo squalo a E.T., da Jurassic Park a Hook, da Prova a prendermi a Il ponte delle spie fino a The Post il suo cinema lavora sugli archetipi di alterità attraverso la strategia di rovesciamento che rende familiare lo sconvolgente e sconvolgente il familiare). Questo terzo capitolo mette la parola fine alla rappresentazione di un mondo che aveva portato i due amici a fondersi l’uno nell’altro: come tutti i guerrieri di Berk, Hiccup indossa armature create dalla pelle che i draghi mutano e ha imparato una stupefacente tecnica di volo (è un drago!); Sdentato ha raggiunto un livello di addomesticamento talmente elevato che è in grado di giocare da solo, scrivere e disegnare sulla sabbia (è un umano!).

Ma ogni confine che racchiude, può diventare soglia che fa sporgere sull’ulteriore come ricorda in una scena Hiccup: «Ero così occupato a combattere per un mondo che io volevo che non ho pensato a quello di cui tu avevi bisogno. Avete badato a noi abbastanza a lungo, è ora che badiate a voi stessi». Hiccup e Sdentato prima degli effetti speciali condividono affetti e visioni speciali: il giovane vichingo vede nel Furia Buia la proiezione della sua identità e del suo futuro; il potente drago, grazie all’educazione ricevuta dall’umano e grazie alla protesi alla coda sempre più sofisticata, accoglie goffamente il sentimento per un suo simile che lo condurrà a sviluppare totalmente la sua forza. In questo rapporto, inoltre, lo spettatore che supera la freudiana fase dello specchio si immedesima in Hiccup e identifica Sdentato come la rappresentazione di un modo e di un mondo cinematografico. L’ingresso nella grotta del Mondo nascosto consegna a Hiccup e allo spettatore una visione estatica che riepiloga motivi e situazioni dell’intera saga trasformandola in un meraviglioso ragionamento sul cinema: fantasma e sogno, distacco e contatto, fumo negli occhi e passione nel cuore, invito al volo, avventura, amore e morte. Ma, soprattutto, Dragon trainer 3 sembra essere un grande inno alla vita. Per una saga animata, ma per il cinema in generale, è sorprendente questa rottura delle regole consolidate della normalità.

Se paragonata ad altre operazioni simili, quella di Dragon Trainer è una saga atipica che (crediamo e speriamo) si concluda così con questo ultimo tassello di un faticoso percorso di crescita. La tensione sessuale esplicita (degli umani e dei draghi) e la capacità di sapersi separare comprendendo i propri spazi assumono i contorni della definitività. In casa DreamWorks la tendenza del recente passato ha dimostrato che a fronte di clamorosi successi le urgenze commerciali hanno giustificato esili necessità narrative: da Shrek a Madagascar, fino all’imminente uscita di Kung Fu Panda 4 l’affermazione al botteghino ha reso possibile la costruzione di episodi successivi anche se non aggiungevano nulla al senso dell’opera. Discorso che si complica, pur restando invariato nella sostanza, che vale anche per la serialità televisiva: tutte le saghe e quasi tutti i titoli DreamWorks hanno una protesi sul piccolo schermo; solo Dragon Trainer (un’ottantina di episodi architettati in tre serie televisive: Riders of Berk, Defenders of Berk, Race to the Edge) presenta un ponte tra il primo e il secondo capitolo costituito dallo sviluppo narrativo delle prime due stagioni televisive.

Anche (ma non solo) per questo, il progetto ispirato alla serie di racconti scritti da Cressida Cowell risulta essere la migliore saga DreamWorks: un’idea compatta e studiata dall’inizio per essere finalizzata alla quadratura, non semplicemente assemblata sull’onda del successo, rivolto a un target ben definito che è cresciuto nel tempo insieme ai personaggi (l’azione e la magia dell’immaginazione fantasy nel primo, la questione dell’affermazione della propria identità, infine l’adolescenza e la sessualità nell’ultimo) per accompagnarli lungo la saga e, alla fine del percorso, salutarli proprio come succede coi protagonisti. È una saga-mondo, un modello autoriale che si esprime attraverso un sistema di segni ripetuti, temi variati, motivi ricorrenti e costrutti peculiari. L’animazione contemporanea non si assume più certi rischi. Nemmeno Pixar aveva mai osato tanto, come dimostra l’imminente uscita di Toy Story 4 e le operazioni meno riuscite quali Alla ricerca di Dory, Cars 3 o, ancor prima, Monster University. Rispetto a Pixar, il cui centro narrativo è la memoria (Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Cars, Ratatuille, Up, Wall-E, Inside out, Coco sono titoli che raccontano la rielaborazione del ricordo, dell’amor fu), attraverso la saga di Dragon Trainer DreamWorks vuole scardinare le regole del gioco e guardare avanti in modo diverso. Da sempre l’idea che il mondo del cinema ha nei confronti delle due rivali è quella di uno smaccato dominio disneyano al quale DreamWorks può solo accompagnare ed, eventualmente, imitare. DreamWorks è riuscita a vincere alcune battaglie nei confronti di Disney solamente quando ha iniziato a considerare i propri limiti come delle vere virtù, quando ha preso atto del fatto che non avere il talento e la creatività del team sponsorizzato da Topolino non dovesse necessariamente costituire un deficit ma potesse essere invece una caratteristica identitaria sulla quale concentrare i propri sforzi.