Affinità selettive

columns top image
Affinità selettive

American Pastoral, il film

Di tanto in tanto portano al cinema qualche grande romanzo della letteratura mondiale – quelli che tutti dovrebbero perlomeno conoscere, per aver letto il risvolto di copertina in libreria o i dettagli di acquisto su Amazon – operazione di cui non si è mai ben capito il senso ma che suona piuttosto coraggiosa (tipo trasformare la Bibbia in catechismo). La cosa offre una buona scusa per rinchiudersi in una sala cinematografica a ripensare a un romanzo che avevi letto un sacco di tempo fa, evitando la triste procedura di prenderlo speranzoso dallo scaffale della libreria e riuscire al massimo a sfogliarlo qua e là, o, gesù che tristezza, scaricarlo da qualche sito che nel frattempo ti mostra la pubblicità di una crema per i calli. Per i più giovani sarebbe un’occasione di conoscere un capolavoro, di vedere il film e magari poi leggere il romanzo, sperando che a portarli al cinema sia la prof di inglese o di italiano, ma pochi lo capiscono, per cui in sala, di solito, non ci va mai nessuno, al massimo la solita maggioranza che naviga tra problemi alla prostata e protesi all’anca. 



Comunque.

 

Adesso hanno fatto la trasposizione di Pastorale americana di Philip Roth. Come si sa non è un romanzo qualunque: pare che sia il più grande libro dell’eterno candidato al Nobel. A suo tempo, nel 1997, vinse il Pulitzer, che è un po’ come l’Oscar e il Golden Globe messi insieme, e Roth in quel periodo era reduce da Il teatro di Sabbath, altro libro splendido. Uno così, lo leggi sempre. Infatti, Pastorale americana (da sempre edito da Einaudi) è se possibile ancora più bello del romanzo precedente, la summa del massimalismo di Roth, che proprio negli anni ’90 superava il luogo comune di quello capace di parlare solo di figa e diventava lo scrittore inarrivabile e mainstream che è ora. Nelle foto si è ormai trasformato in vecchietto un po’ stanco nel fisico. Nel cuore, non so.





A parte le faccende che riguardavano la vita privata di Roth, la sua depressione e le cose orribili che di lui aveva scritto l’ex moglie in una autobiografia, va detto che Pastorale americana fu subito e unanimemente riconosciuto come un grandissimo romanzo. Io avevo vent’anni, allora, lo lessi prendendolo dalla biblioteca della mia città, dopo aver letto un articolo di Antonio D’Orrico su «Sette», il supplemento del «Corriere», ancora me lo ricordo, e lo giudicai, in tutta onestà, un romanzo bellissimo e magniloquente: diciamo pure un capolavoro. Un libro così complesso, in realtà, che da allora mi è rimasta la sensazione latente di una partita lasciata a metà. Per questo l’ho riletto una seconda volta. Sicuramente avevo già ragione allora (è sorprendente come a vent’anni si possa avere ogni tanto ragione, specie se leggi uno come Roth), e come me migliaia di altri. Ma quando, specie dopo La macchia umana, Roth divenne lo scrittore simbolo della mia generazione, e tutti attaccarono a dire che Pastorale era un capolavoro, io sentivo di essere stato tradito, diciamo superato a sinistra. Ahah!, mi dicevo, io lo sapevo prima di voi, io non ho letto solo Pastorale, io ho letto Portnoy, ho letto Sabbath, ho letto Ho sposato un comunista, ho letto quello sul baseball e quello su Nixon, e pure Operazione Shylock (e di quest’ultimo dicevo, l’avete letto? L’avete letto quello? Ci avete capito qualcosa? No, perché sai, quando Roth lo scrisse era bello depresso e ci andava giù di brutto coi suoi deliri… Mica ha solo e sempre parlato di figa e di anni ’60 – ah già, sì, scusate, perché Pastorale americana non parla di figa ma di anni ’60, e dei riflessi che la contestazione giovanile ebbe sulla vita quotidiana della brave persone che credevano nel sogno).

 




Quindi figurati se non drizzavo le orecchie ora che è uscita la versione cinematografica del libro. Tra l’altro si tratta di un’operazione lunga e sofferta, passata attraverso anni di lavorazione, un’espressione che nel cinema significa: ecco come lo ha voluto l’ultimo regista che ha preso in mano il progetto, dopo che prima di lui ci avevano già lavorato in cinquanta, mescolando pezzi di sceneggiatura e riscritture come una caponata. Nel caso specifico, Philip Noyce ha avuto per molto l’opzione sul romanzo (il sito IMdB, che pare sia come la Treccani per chi scrive di cinema, lo ha dato per anni in produzione, e io ogni tanto andavo a controllare se per caso c’era una data d’uscita), poi a un certo punto ha deciso di mollarlo e di passarlo a chissà chi, che poi deve averlo a sua volta passato a Ewan McGregor, che chissà perché ha voluto girare il suo primo film proprio con sto libro sul groppone. (Anch’io, per inciso, vorrei lavorare per anni a un progetto, per poi mollare tutto e mettermi a fare altro, così gli amici capiscono che ho un sacco di lavoro e posso permettermi di mandare tutto a puttane, soprattutto quando un sacco di altre persone si mettono di mezzo...).



Ora. Sono ormai passati quasi vent’anni da Pastorale americana e da quando io lo lessi che ancora abitavo coi miei. Nel frattempo, D’Orrico ha pure pubblicato la lettera che a un certo punto gli scrissi per ringraziarlo della segnalazione, la tengo ancora da qualche parte sulla libreria. Chiudiamola qui, allora. Affrontiamo American Pastoral (l’hanno lasciato in inglese, il titolo del film, caso mai qualcuno si confondesse col libro). È dunque un capolavoro o un cesso? Ne sono uscito con certezze che decido di archiviare e di non tirar fuori mai più. Eccole qui.



Il protagonista, lo stesso Ewan McGregor, non si può vedere. Lo salva la buona volontà, impagabile: con quello sguardo sognante sempre rivolto fuoricampo e con la luce alle spalle sembra uscito da un extra di Big Fish. Fantastico. La scena dell’attentato alla stazione di posta, con la bandiera americana che sventola prima di riempirsi di fumo, è cinema medio puro. La tensione con cui il cinema cerca di ricreare la densità della parola è perfetta. Perfetta se siete disposti a barattare l’immensità di una frase con una fotografia cupa e qualche inquadratura un po' più lunga del necessario. Così, per dare emozione. Se vi accontentate di tutto questo, il problema è vostro.



Il trucco e l’aspetto di Dakota Fanning sono da denuncia. Specie quando è ragazzina: ma non era dodicenne, brutta e grassa, nel libro? Forse anche qui il truccatore, o meglio ancora il responsabile del casting, è da prendere a calci in culo fino alla Terra del Fuoco.



La scena dell’incontro dopo anni fra padre e figlia è bella, lui per una volta è bravo, molla giù sta faccia da triglia e s’incazza sul serio. In sceneggiatura doveva essere ancora meglio, ma il film non è nemmeno girato da schifo. È girato e basta. Jennifer Connelly, come figura e stile di recitazione, è una ventina di centimetri sopra agli altri. Fantastica. Inoltre Jennifer Connelly è sempre bellissima.





La trama del film è mostruosamente semplificata rispetto a quella del libro. Dico solo questo: c’è un padre che passi tutto il film a compatire per quello che è e che vorresti odiare con tutto il cuore, ma poi alla fine pensi che in fondo è innocente, che la sua colpa è collettiva, e che per amarlo o al contrario deriderlo, però, dovresti andarti a rileggere il libro.



In generale, in American Pastoral è tutto molto annacquato, e si capisce solo quello che gli autori della sceneggiatura vogliono farti capire. I tre protagonisti si dicono e fanno cose, per tutto il film, come tre bambini che si sono persi nella grande e complessa società americana degli anni ’60, quella del Vietnam e delle bombe, della reazione nixoniana e del sogno eternamente spezzato.

 

Magari Pastorale americana era un romanzo troppo complesso da portare al cinema e quindi inevitabilmente da semplificare. Ma se a metà anni ’90, in reazione al minimalismo imperante e un attimo prima che la letteratura americana abbracci il realismo isterico, decidi di scrivere un romanzo poderoso eppure limpidissimo su una perfetta famiglia americana travolta dal caos della Storia (i nostri nemmeno arrivano, in Pastorale americana, i nostri sono già lì, e fanno un sacco di cazzate), e per farlo non la racconti in modo lineare ma come al solito usi il filtro del tuo alter ego, uno scrittore che scrive una storia che ha sentito a sua volta raccontare, aumentando così la distanza fra scrittura e racconto, fra tempo del racconto e tempo della Storia, avvolgendo tutto in una ambiguità tragica e senza speranza, e per di più concludendo, come dice la frase di lancio della centesima ristampa, un romanzo di 400 pagine con la domanda più bastarda di tutte (ve la ricordate, vero? «Cosa diavolo c'è di meno riprovevole della vita dei Levov?»), ecco, se all’apice della carriera scrivi un tale e poderoso capolavoro (ricordo, ancora, che nella città dove facevo l’università c’era una libreria fondata da una nota scuola di scrittura, con delle torrette in cui era esposto il libro, e sulla torrette delle cuffie per ascoltare la presentazione di una persona importante; per Pastorale americana c’era un famoso scrittore e critico cinematografico che diceva proprio che la particolarità più bella del libro è quella di generare discussioni, liti, domande fra i lettori...) non è che ti puoi aspettare che al cinema poi venga bene. Onore al compagno McGregor, in ogni caso.





Durante una conversazione sul pick-up (ci sono tanti pick-up, in Pastorale americana: siamo pur sempre nella provincia americana!), McGregor becca una debolezza della figlia e la prende in giro. Lui ha quarant’anni, o giù di lì, è bello, felice, buono, gran lavoratore e ha sposato una miss qualcosa, ma ha una figlia bruttina che balbetta. Lei s’incazza a morte e si  mortifica. Lui allora, tempo dopo, ripensandoci si convince che sia iniziata lì, la fine della sua pastorale americana. E quindi di tutta una nazione. Quella riflessione è una delle migliori riflessioni della storia della letteratura. Spero di essermi spiegato: nel caso, andarsi a rileggere la scena. Peccato che tutto questo avvenga solo nel libro.



McGregor che guarda la sua bambina correre in un prato rielabora quella parte incredibile del libro in cui Roth riprende la tradizione di Semedimela, la protagonista di una favola per bambini americana. Potenzialmente sarebbe una scenta fantastica. Peccato, ancora, che anche qui l’espressione di McGregor sia in fastidioso smiling acting.



Ovviamente l’idea stessa di vedere gli anni ’60 al cinema e ripensare a quel caos storico, fa di American Pastoral quantomeno un film interessante.
Chi non si commuove anche un po’ quando McGregor e la Connelly rendono omaggio alla moglie dell’uomo morto nell’attentato messo in atto dalla figlia non possiede un cuore, non l’ha mai posseduto, non lo possiederà mai. (Loro sono inquadrati frontalmente, sono vestiti di nero, la finestra emana luce alle loro spalle, sono belli, piangono… Va be’.) C’è anche la scena in cui lei, la figlia, guarda alla tv i monaci buddisti darsi fuoco all’inizio della guerra in Vietnam. In quel momento, lei cambia, lì capisce che non ha senso vivere nel paese in cui vive, che non c’è nesso tra il seminare e il raccogliere, capisce che la pace dopo la guerra sarà senza senso, fissa attonita lo schermo e capisce… Giuro, se una scena così la vedi non la dimentichi mai più. O forse succede solo se la leggi nel libro, che non la dimentichi più.



Risultato finale: Pastorale americana, il romanzo, è un cazzo di capolavoro. American Pastoral, il film, no. Mi è bastato vedere solo il trailer, mica il film per intero. Col cazzo che vado al cinema a vedere un attore prendere Roth e trasformarlo in Robert Waller. Roth è Roth, e lasciamolo lì dove sta, anche senza Nobel. Secondo me è la morale del film. Amen.