Bocconi prelibati

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Bocconi prelibati

Critica, lunga vita!

Se ci pensate, la critica sembra avere superato il cinema. A destra, si direbbe. Ho l’impressione che fare critica, oggi, sia molto più gratificante del fare-un-film. E gratificante per chi? Per il critico, naturalmente, e non c’è niente di male. Ma anche, a scanso di equivoci, per il lettore. Perché vediamo di piantarla una volta per tutte con le consuete cassandre: la critica è letta, messa da parte (cioè archiviata nella memoria), utilizzata (e non sfruttata); alla critica si ricorre, si presta attenzione. Un sogno da bolla social?


Pensateci ancora. Quanti sono stati nel 2021 i titoli che hanno forzato la critica a tal punto da sfidarla e da renderla straordinariamente feconda? Quanti film l’hanno costretta a interrogarsi davanti al suo stesso specchio? Titane, Annette, Freaks Out, Diabolik, No Time to Die etc. Nei loro confronti la critica si è sentita in dovere e in diritto di immaginare, di creare, di sentire ipotizzare inventare. Ha fatto male? Al contrario: un dialogo così vivo non capitava da anni. Si tratta di un dovere e di un diritto assolutamente giustificati e di merito. Per quale motivo la critica non dovrebbe resistere alle immagini? Per quale motivo dovrebbe arrendersi all’evidenza? Io alla critica credo, perciò credo nella sua forza, non nella sua acquiescenza. E crederci, che lo si accetti o no, significa credere che la critica abbia la facoltà esclusiva di dichiarare guerra al film. Che, in fin dei conti, è l’unica guerra condivisibile e, per giunta, auspicabile. Scendere in campo e opporsi al cinema non conquista soltanto credito pro domo sua: la critica, che non è una recensione, che non è un’opinione, che non è un post o un tweet, è la più grande risorsa di sostentamento delle immagini. Vi pare troppo? Probabilmente è perché confidate ancora nel pubblico e nel sistema-sala, per cui vige sempre e comunque una proporzione numerica. Ma che noia. Che tedio. E che noia i dibattiti al riguardo. La vogliamo capire per favore che il rapporto con le immagini è cambiato nel profondo da almeno dieci anni? E no, tranquilli, non c’entrano né i numeri pandemici, né le tanto vilipese istituzioni. Prendere le misure con il cinema adesso ha un valore (non voglio dire senso) completamente diverso, ed è inutile – oltre che mortalmente barboso – insistere con il solito cul-de-sac algebrico.


E sapete cosa? Mi sembra che la critica ci sia arrivata prima. Prima dello spettatore, prima dei social, prima del film. La critica, che non è neppure un parere, ha capito e accettato che il cinema, talvolta, non sempre, ma più di quanto siamo disposti a riconoscere, s’è fermato. Vorrei sottolinearlo: l’ha accettato! E quindi lei, la critica, che non è un pensiero qualunque, come s’è comportata? Opponendoglisi, al cinema, tenendogli testa. I risultati sono stati, nella stragrande maggioranza dei casi, formidabili. Tanto che ad uscirne con le ossa rotte sono state proprie le immagini. Altro che botteghino. Altro che sacralità della sala. La critica ha vinto sul cinema. Un esempio per tutti: la Palma d’Oro di Cannes, che ha prodotto pagine molto più eccitanti di quanto essa stessa forse avrebbe avuto il coraggio di prevedere. E guardate che non è una fantasia a occhi aperti. Non è romanticismo. La deferenza non ha mai portato a nulla di buono. E l’ironia, ormai, ha fatto il suo tempo (che noia, che tedio, che barba gli ironici a tutti i costi, über alles e coscienziosamente fuori dai giochi). Amare il cinema non vuol dire ossequiarlo. E la critica, se è una critica che lo ama, il cinema, è chiamata all’insolenza, non all’esecuzione catastale. Altrimenti si rischia l’impasse, come ho un po’ la sensazione sia accaduto con il West Side Story di Spielberg, nei confronti del quale ho percepito più devozione che scoperta.


La critica non può e non deve vergognarsi dell’ideazione. Dovrebbe piuttosto vergognarsi della propria adorazione, del proprio fanatismo. Ma quella, per l’appunto, non è (più) critica. Anzi, la critica, per vivere nel contemporaneo e del contemporaneo, non dovrebbe essere (più) un punto di vista. E non dovrebbe presupporre ancora e sempre e ottusamente di vestire i panni dell’aiuto, dello strumento di giudizio, del conforto. Oggi auspico una critica bellicosa e interventista. Ed è ciò che spesso vedo. E leggo. Questo è, la critica. Che non è una posizione. È invece un contrasto. Una singolar tenzone. Perché a essere in gioco non è mica l’onore del film o del suo autore. Il bello però è che il suo, di onore, la critica l’ha riconquistato a suon di splendide invenzioni e di irresistibili teorie. Contro il didascalismo, l’educazione bigotta, il rispetto servile. E c’è pure un altro trionfo: così com’è, questa new, wonderful critica è ascoltata e stimata. Non l’avremmo mai detto, vero? Eppure siamo ancora qui, alla conclusione di un anno e all’inizio di uno nuovo. Per noi, e per tutti i film del mondo, non può esserci augurio migliore.


So may we start (again)?