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Questo articolo è stato inizialmente pubblicato sul sito Doppiozero.

I personaggi di Almodóvar hanno un solo modo per tenere uniti i legami spezzati: raccontandoli. Scrivendo il proprio amore, confessandolo alla persona amata, parlando con la parte mancante. I personaggi di Almodóvar sono scrittori, anche quando, semplicemente, vivono. Con la loro vita, scrivono sullo schermo. Come Esteban all’inizio di Tutto su mia madre, che prima di morire e lasciare la madre al proprio dolore completa ciò che la parola scritta ha lasciato a metà.





Anche nell’ultimo film di Almodóvar, Julieta (presentato lo scorso maggio a Cannes e ora in dvd per la Warner), c’è un rapporto materno spezzato. Una madre che non vede la figlia da dodici anni, dopo che quest’ultima, appena maggiorenne, si è rifugiata per un mese in una casa per ritiri spirituali e poi è fuggita senza dare notizie. Come tutte le donne di Almodóvar, anche Julieta prova a ricucire le ferite riscrivendo la propria storia. Julieta è rimasta vedova da giovane, ha cresciuto la figlia da sola, lontano dal mondo che aveva costruito con l’uomo che amava. O forse è accaduto il contrario: resa inerme e passiva dal dolore, Julieta è stata salvata e cresciuta dalla figlia. E un amore sbilanciato e carico di troppi silenzi ha finito per allontanare le due donne. Scrivendo alla figlia mai più rivista, rivolgendosi a un fantasma, Julieta parla in realtà con sé, ripensa alla propria vita, reinventa se stessa. A cominciare dal proprio nome.

Julieta, come è noto, è tratto da tre racconti di Alice Munro, i primi tre della raccolta In fuga (Fatalità, Fra poco, Silenzio), in cui la protagonista è una sola e si chiama Juliet. Almodóvar trasporta in Spagna il mondo della scrittrice canadese, lo prosegue, lo modifica, lo fa proprio. A cominciare dal nome della protagonista, che diventa Julieta, che da giornalista televisiva diventa professoressa, ma che, come Juliet e come Esteban, scopre che scrivere (e raccontare, rielaborare, ripensare) è il solo modo di restare vivi. La superfice del film è fatta delle parole di Julieta, usate da Almodóvar per entrare nell’animo del personaggio, nel mondo che abita, nel corpi in cui respira e patisce.

In questo senso, Julieta è il film meno melodrammatico del regista spagnolo; o meglio, un film che evoca il melodramma, e infine lo evita. La statua di terracotta che mostra un omino senza volto, immobile e antico; il décor degli interni come sempre rosso fiammante ma anche inaspettatamente spoglio e bianco; o ancora il maglione rosso su cui si apre il film, che a differenza di quanto succedeva in Tutto su mia madre non viene superato e invaso dalla macchina da presa, sono una sorta di barriera oltre la quale Almodóvar sceglie di non entrare.

La parola scritta, che in Tutto su mia madre si interrompeva dopo la morte di Esteban, fa da freno, impedisce di mettere in scena la solita, risaputa verità recitata delle relazioni umane. In Julieta l’emozione dell’incontro sta oltre il film stesso. In scena va piuttosto l’esistenza dei personaggi, il loro stare al mondo soli, dentro uno spazio che li imprigiona, invece che riverberare le loro passioni.

«Ciascuno di voi ha soltanto una storia, – aveva detto. – Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi per la storia. Tanto ne avete una sola».

Sono parole, queste ultime, contenute in un libro uscito negli stessi giorni in cui uscita Julieta, lo scorso maggio: Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout (Einaudi 2016, trad. Susanna Basso). La storia di una donna ricoverata in ospedale che vede ricomparire al suo capezzale la madre con cui non parla da anni. E che nel volto di una donna che ama oltre ogni cosa, che non ha mai veramente capito o forse conosciuto, trova il modo di ridefinire se stessa e la propria relazione con il mondo. La storia di un incontro. O meglio, il racconto a distanza che una donna, nel frattempo diventata scrittrice, riesce a fare del proprio incontro sofferto e difficile con la madre.

Anche Mi chiamo Lucy Barton, dunque, ricuce la ferita di un legame spezzato attraverso la parola scritta. Lucy Barton è come Julieta, anche se figlia invece che madre. Per rinascere, ricomincia dal proprio nome. E dall’amore materno. Le versioni di una storia possono essere tante, ma la storia è sempre quella. La storia di un legame di sangue che è origine del dolore e dell’identità.

Elizabeth Strout e Almodóvar hanno una visione ciclica dell’esistenza, mettono in conto la continua possibilità di rinascere. E il loro stesso modo creativo rinasce ogni volta da quel legame. Mi chiamo July Barton è fatto di brevi capitoli in cui la protagonista, anche narratrice in prima persona, divaga sulla propria infanzia, sul proprio matrimonio fallito, sui giorni del ricovero in ospedale, salvo tornare ogni volta, come attratta da una forza insostenibile, al nodo del rapporto con la madre, donna fredda e bigotta, eppure capace di lasciare tutto per accudire la figlia ammalata.

Quando Lucy Barton, diversi anni dopo il ricovero in ospedale, ritrova la madre mentre la donna è in punto di morte, Elizabeth Strout trova la sintesi perfetta del loro amore:

Mi chinai a baciarle i capelli, tutti arruffati perché era stata a letto, malata. […] Poi mi voltai e presi le mie cose, senza guardarmi indietro, ma quando ebbi varcato la soglia non potrei proseguire. Feci un passo indietro e, senza girarmi, dissi: – Mamma, ti voglio bene. Di fronte avevo il corridoio, ma il suo letto era quello più vicino alla porta perciò sono sicura che doveva aver sentito. Aspettai. Non ci fu risposta; non un suono. Mi dico che sentì. Me lo dico – me lo sono detta – così tante volte.

La soglia, la parola strappata a forza a se stessi, lo spazio che si frappone fra i personaggi: una scrittura che rimanda a un tipo di sintesi cinematografica trova l’indicibilità dell’amore, il confine invalicabile tra la verità dei corpi e la fragilità della parola. E così, inaspettatamente, fa Almodóvar in Julieta, che oltre il colore rosso fuoco del suo cinema trova il fuoricampo, lui che i suoi film, anche i più belli, li ha sempre appesantiti di parole e di scrittura…

La fedeltà ad Alice Munro, alla sua scrittura reticente, calibrata, dove l’emozione resta serrata in gola ai personaggi, verbalizzata solo in racconti a posteriori, sta nel passaggio dalla scrittura al silenzio. Nella reticenza con cui Julieta si riavvicina alla figlia, soffocando il desiderio di conoscere, c’è un silenzio che per una volta è pudore, pagina bianca, non nascondimento e repressione. Julieta non è diversa da Manuela di Tutto su mia madre: ha bisogno di sapere, di piangere, di sfogarsi. E se Manuela rinasce grazie al teatro, mettendo in scena la propria perdita attraverso Tennessee Williams (in un gesto tipicamente melodrammatico), Julieta trova la liberazione nel gesto solitario e muto della scrittura.

I suoi pensieri equivalgono agli «avrebbe dovuto dire» di cui la Munro dissemina i suoi racconti, dentro passaggi in corsivo che restituiscono l’anima di Juliet, madre che vorrebbe urlare l’amore per la propria figlia, ma sceglie di non esporlo («È la mia gioia, avrebbe dovuto dire. Non che appartenga alla categoria degli spensierati dispensatori di cieli sereni, gaudio e ottimismo coatto. Mi auguro di averla cresciuta un po’ meglio, in effetti…»).

Nel finale di Silenzio, Alice Munro accetta una sorta di quieto adattamento al dolore. La sua Juliet finisce laddove inizia la Julieta di Almodóvar, in un’attesa e un’assenza riconosciute con freddezza distante, quasi cinica: «Continua a sperare di ricevere una parola da Penelope, ma senza perderci il sonno. Spera, come la gente di buon senso può sperare in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così».

Almodóvar, e in forma diverse anche Elizabeth Strout, raccontano invece una rieducazione alla vita attraverso il dolore, l’amore, e la loro riscrittura. Scrivendo, Julieta impara ad accettare l’assenza della figlia e la possibilità di un incontro con un’estranea. E il finale aperto del film, è forse il più grande regalo che Almodóvar abbia mai fatto a uno dei suoi personaggi. Allo stesso modo, in maniera opposta e complementare, scrivendo Lucy Barton impara ad accettare il desiderio di andarsene, di abbandonare gli altri. Così scrive, verso la fine del romanzo:

«Ripenso a quando Jeremy mi disse che dovevo essere spietata per fare la scrittrice. E penso che non andai mai a trovare mio fratello e mia sorella e miei perché dovevo sempre lavorare a una storia e non avevo abbastanza tempo. (Ma è anche che non ci volevo andare). Non c’era mai il tempo, e più tardi capii che se fossi rimasta sposata non avrei scritto un altro libro, non del tipo che volevo, e anche questo va detto. Ma in realtà, la spietatezza sta nell’aggrapparmi solo a me stessa…».

Julieta e Lucy Barton non hanno che il loro nome e la loro storia. La seconda li usa come attestato d’esistenza («Questa però è la mia. Questa in particolare. E io mi chiamo Lucy Barton»), la prima, invece, riscopre il proprio passato e la propria identità, ritrovandosi come persona prima ancora che come madre, completando anche a lei, a suo modo, quel titolo lasciato a metà, quel respiro troncato, sotto un maglione e dentro un corpo, che sta all’origine di ogni film di Almodóvar.