Malatempora

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House of Gucci/House of Cinema

In una delle tante scene memorabili di House of Gucci Maurizio Gucci, che ha appena “scoperto” Tom Ford e (forse) iniziato a risollevare il destino dell’impresa di famiglia massacrata dalle indagini della polizia tributaria, siede assieme ai soci della InvestCorp e al fidato avvocato Domenico De Sole in una sala di camerieri imbalsamati e marmi bianchissimi, sfarzosa e tombale come la gran parte degli interni del film. Pensa che sia la riunione per festeggiare il successo della sfilata, in realtà è una trappola per rilevare la sua quota di azioni ed estrometterlo dall’impresa di famiglia – che di pezzetti di famiglia ne ha già persi un paio. Al centro della tavola un grande vassoio di carne, un carpaccio che gli viene consigliato di assaggiare perché “si scioglie in bocca”. Ne prende una fetta, la assaggia. Mentre gli spiegano che no, così non può continuare, che spende troppo. La carne è buona, ottima. Una Ferrari, una Lamborghini, l’attico, la villa. Davvero ottima. Le capacità imprenditoriali, la visione del business. Da dove arriva questa carne?, chiede qualcuno a un cameriere: carne Chianina, bestie che vivono libere all’aria aperta, in Toscana. Carne firmata Gucci.


House of Gucci è fatto così. Di metafore esagerate, simboli spiattellati, di scene concepite tutte, nessuna esclusa, come un momento indimenticabile – il principio che guida la narrazione è del resto ispirato metà a un racconto mitologico, metà a un videoclip –, di eccessi visivi, musicali, linguistici (le acrobazie di certi parallelismi, la sfrontatezza anni Ottanta di certi ralenti), di cafoneria, lusso, godimento, catchphrase (mica dialoghi di gente che parla davvero). Del resto, di bestie si sta parlando. Bestie dalla nobile, lunga discendenza, bestie bellissime e dal sapore straordinario, ma pur sempre bestie, allevate tra le colline toscane e il lusso razionalista di Villa Necchi; bestie che vengono infine spaventate da quella più giovane e scalpitante, Patrizia-Taylor (una replica, non un falso), allevata tra camionisti e volgare benessere piccoloborghese, che confonde Klimt con Picasso ma, appunto, sa chi è Picasso (e sa che vale un sacco di soldi). In un film del genere, animalesco, viscerale, scomposto, può allora accadere, con un sentimento che mescola la più sofisticata intuizione culturale e il più volgare effetto telenovela, che un matrimonio, quello tra Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani, venga montato in parallelo a Faith di George Michael – di fede, in effetti, pur sempre si tratta (“And I know all the games you play because I played them, too”) –, e che il finale, in un’aula di tribunale dove si chiude il processo per l’assassinio di Maurizio Gucci, venga commentato musicalmente dalla versione, già di per sé rovinata, di Baby Can I Hold You Tonight di Tracy Chapman cantata con Luciano Pavarotti – “Like sorry, like sorry…”, anche se nessuno è davvero dispiaciuto. Può capitare, cioè, che la cultura popolare che ha alimentato e commentato tutta la vicenda Gucci-Reggiani entri nel film non, banalmente, come lo sfondo storico di una ricostruzione educata e filologicamente corretta, ma come l’unico mezzo per raccontare davvero questa storia – interpretare, mostrare, far vedere e sentire. Come se fosse, appunto l’iconografia e la colonna sonora, letteralmente, di quell’epoca, l’ossatura materiale, più che simbolica, di quella vicenda tutto sommato qualunque di corna e interessi economici e famiglie allo sbando, e soprattutto del dentro e del fuori dei personaggi. Letteralmente: perché anche questo è parte del fascino smaltato e travolgente del film, la profondità letterale e con fondo dorato – come la foglia d’oro che Aldo Gucci nascondeva nei primi modelli dei suoi iconici mocassini (ma poi più, costava troppo) – della superficie.
 

Solo Scott poteva dirigere questo film, con un cast di attori tutti straordinari dentro personaggi tagliati via senza ritegno e sfumature, perennemente in costume, vestiti e truccati per la macchina da presa, a metà tra la marionetta e la statua: perché solo Scott poteva mettere le mani in una materia che è già cinema e spettacolo, intrattenimento e romanzetto, con la giusta consapevolezza di come funzionano, in questo caso, immagini e musiche, con la giusta dose di ironia e distacco, ma anche di faith. Perché Scott, che in fondo è un Gucci del cinema, quell’immaginario lo ha creato, oltre che ispirato e commentato, è stato uno di quelli che gli anni Ottanta li ha messi in scena, colorati, musicati e consegnati all’immaginario collettivo. Solo Scott poteva fare questo film, o farlo così bene, senza un momento di tregua concesso allo spettatore e alla realtà, perché sa benissimo come si lavora una materia che è già cinema e non vuole dire nient’altro se non se stessa – è già una foglia d’oro, è già una bestia rara. House of Gucci racconta la “storia vera” di Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani, ma è anche un po’ l’autobiografia culturale del suo regista. Senza nostalgie, se non forse per certi sapori un po’ bestiali.