Sangue e proiettili. Ed escrementi. Tanti.
Circa un anno fa, all'esordio di questa rubrica, avevamo detto (scusate il plurale: non è maiestatis, semplicemente ci s'illude che qualcuno partecipi di questo universo in dissolvimento) che l'unica possibilità del western era di rivestirsi di ironica pirotecnia e abbandonare qualunque intento significante. Ne parlavamo a proposito del pur non eccelso Lone Ranger. Che non ha indicato una nuova strada possibile al western, così come auspicavamo (sempre noi affezionati), perché pare che l'unica via praticabile sia infarcire di prodotti talmente scadenti il mercato home video da far rizzare i capelli in testa anche a me che ormai attendo solo la delibera del Comune per il mio personale monumento ai caduti.
Ora, con il segno dell'ironia, ci prova Un milione di modi di morire nel West (da ottobre anche in Italia), scritto e diretto da Seth MacFarlane, già creatore e sceneggiatore di (tra gli altri) American Dad! e de I Griffin. Umorismo di grana grossa, un pizzico di ironico romance e l'architrave della parodia a sostenere il tutto.
La parodia è bestia strana, bifronte: mentre fa andare tutto il racconto in vacca (nel western è il caso di dirlo) giocando sul ribaltamento delle prospettive e delle attese dello spettatore, si pone come attento studio filologico delle situazioni narrative che intende raccontare, sfruttando l'intero repertorio di norme e consuetudini cui fa riferimento. In questo caso l'intero genere western, preso di peso con i suoi meccanismi e trasportato su un terreno di impervia comicità, assumendone fin dai titoli di testa confezione (la scelta del formato 2,35: 1), impatto iconico (la Monument Valley come luogo di elezione) e citazione nobilitante (la partitura di archi imbizzarrita che si rifà all'introduzione di Jerome Moross per Il grande paese di William Wyler). Elenco che potrebbe essere lunghissimo, perché citazioni, riferimenti, ripetizioni e presenze emblematiche creano appartenenza (in questo modo si spiegano le apparizioni più o meno gratuite di Doc/Christopher Lloyd di Ritorno al futuro 3 o di Django/Jamie Foxx intento a vendicare il razzismo di un giostraio).
MacFarlane s'insedia nel western, decide di interpretare un insolito pastore di pecore (come i due amanti nascosti sulle Brokeback Mountain o come il Glenn Ford de La legge del più forte) accusato di essere un mediocre e quindi abbandonato dalla donna che ama (Amanda Seyfried), s'innamora ricambiato della moglie (Charlize Theron) di uno spietato fuorilegge (Liam Neeson) che alla fine deve affrontare sulla Main Street, come esigenza di genere impone.
Il ribaltamento parodico è costante e investe situazioni canoniche e personaggi stereotipati. Così può capitare di vedere come prima sequenza un duello farsesco in cui uno dei due contendenti (cazzaro per necessità di sopravvivenza) cerca di guadagnare tempo simulando una fellatio con l'ombra dell'avversario, trasformando la solitamente mitopoietica platea della Main Street nell'impaziente pubblico di una stand-up comedy. Oppure di giocare sull'inviolabilità prematrimoniale di una prostituta da saloon professionalmente fin troppo attiva.
A tratti si ride anche di gusto: particolarmente interessante è l'idea di esasperare uno dei temi fondamentali del genere, la morte, insieme eventualità effettiva, minaccia costante e soluzione di conflitti e ingiustizie, rendendola contingenza grottesca, pronta a far capolino nei momenti più banali con effetti dirompenti.
Più spesso si rimane perplessi, soprattutto per la deriva scatologica che MacFarlane impone alla pellicola, piena di flatulenze, rombi di tuono, smottamenti intestinali e disastrose evacuazioni nella cupola degli Stetson, che finalmente paiono trovare una sensata funzionalità dopo anni di oblio sugli schermi.
Non che questa rubrica si scandalizzi, anzi. Alcune delle più irrefrenabili risate degli ultimi vent'anni hanno avuto come momento scatenante squilibri gastrici, ma sono la gratuità della trovata e la sua reiterazione a rendere scettici: dopo l'animato banchetto notturno di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, ha ancora un senso riproporre con gli stessi termini la ben nota rozzezza dei vaccari?
Tuttavia, è proprio la scelta della parodia a non convincere. Iperboli, capovolgimenti inattesi delle consuetudini e frantumazione dei cliché funzionano se applicati a generi e situazioni resi canonici da una conoscenza attiva, giustificata da una visione attualizzata e costante. L'efficacia non è la stessa se riferita a un genere la cui classicità è ormai retaggio archeologico e i cui frantumi sono già stato oggetto di una ridiscussione critica durante gli anni Settanta.
Spogliata dell'intento parodico, resta l'umorismo di grana grossa e sprazzi di ironico romance. Punteggiati qua e là da scorreggine che sostituiscono le scoppiettanti sparatorie di un tempo.