Jon Favreau

The Mandalorian II

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Quando si prendono in esame opere e prodotti del composito universo mitografico di Star Wars risulta inevitabile indirizzare la riflessione verso significati, ruoli e funzioni delle nuove mitologie collettive. Nel suo strepitoso Origini e forme del mito greco, Paula Philippson attribuisce al mito un carattere eminentemente epistemologico, definendolo come un kosmos symbolikos che rielabora la realtà (e il pensiero) attraverso nuove forme narrative e logico-concettuali. Mutatis mutandis, la straordinaria cosmogonia mitologico-fantascientifica di Lucas segue in fondo lo stesso paradigma, attraverso una sorta di ripescaggio culturale che era già stato dell'Umanesimo e del Rinascimento: rielaborare, attraverso l'escamotage apparentemente frivolo del divertimento escapitisco e atemporale, essenza e sostanza dei grandi archetipi della memoria collettiva e della cultura (alta e bassa, occidentale e orientale, cinematografica e letteraria o para-letteraria che sia: non fa differenza), trasformali in un simbolo estetico e filosofico che permetta ancora una volta di comprendere e rielaborare i lineamenti della realtà, disporli in un nuovo sistema che possegga i caratteri dell'immediatezza, primitiva e fanciullesca, del racconto proto-fiabesco.

Perché ciò che sfugge a molti commentatori troppo attenti a magnificarne (o sbertucciarne) gli aspetti più ludici, infantili o disimpegnati, è che la trilogia originale (1977-1983) di Star Wars è contemporaneamente prodotto e coscienza critica delle dinamiche storiche di medio periodo degli anni in cui fu ideata, quelli della disillusione seguita all'apogeo «liberal» della presidenza Kennedy, della guerra fredda e del Vietnam, della spregiudicata realpolitik di Nixon (la cui figura s'adombra nel mefistofelico imperatore Palpatine), del Watergate e della minaccia alla democrazia.

Allo stesso modo, anche se in maniera più problematica e automatica, la cosiddetta trilogia prequel (1999-2005) è invece profondamente figlia delle rapide trasformazioni dell'America post-industriale, dei neo-cons, della war on terror, delle strategie dell'odio e del terrore. Se più volte quindi si è ascritto il progetto lucasiano alla grande stagione dell'intertestualità postmodernista, è vero che le sue premesse materiali lo avvicinano in fondo alla letteratura seriale ottocentesca e al suo sogno massimalista di diventare sintesi di cultura e comportamenti sociali del periodo.

Una lunga premessa, questa, necessaria per inquadrare in uno specifico terreno d'indagine la serie televisiva The Mandalorian, giunta alla seconda stagione e concepita come trait d'union tra le vicende raccontate nella trilogia originale e la trilogia sequel (2015-2019) dell'«ecosistema» di Star Wars, da tempo orfano del demiurgo Lucas dopo l'acquisto del franchise da parte della Disney nel 2012.

Ambientata nel periodo immediatamente successivo alla caduta del malvagio Impero e alla transitoria e complessa restaurazione della Repubblica, The Mandalorian trasforma la celebre «galassia lontana lontana» in una no man's land popolata da cacciatori di taglie (come il protagonista Din Djarin, appartenente alla società d'antiche tradizione guerriere dei mandaloriani), predoni, ex-ufficiali assetati di potere, nostalgici dell'ancien régime, trafficanti, gangster, ambigui robivecchi e commercianti, mercenari dal cuore d'oro e piccole enclave e strutture consortili che si contendono un potere sempre più frammentato dopo la caduta del governo intergalattico centrale.

In questo spazio fluido, replicando le dinamiche dei due protagonisti del ciclo di film di Lone Wolf e Cub (tratto dal manga gegika di Kazuo Koike), si muovono il Mandaloriano e il tenero alieno Grogu (universalmente conosciuto dal fandom con l'inaccurato nickname Baby Yoda), sensibile alla Forza e ricercato per non meglio precisati scopi da un drappello di ex-imperiali guidati dall'implacabile Moff Gideon.

Con uno stratagemma che il produttore esecutivo Dave Filoni (coadiuvato dal creatore dello show Jon Favreau) aveva già sperimentato nella sottostimata serie animata Star Wars - The Clone Wars, il racconto alterna storytelling verticale (alcuni episodi autoconclusivi) e orizzontale, dove la continuità è data anche dall'inscrizione delle vicende nel quadro più ampio della mitologia di Star Wars (nella seconda stagione si cominciano timidamente ad approfondire le dinamiche che hanno portato alla nascita del crudele Primo Ordine).

Eppure, il principio o basamento ideale dal quale sembra muovere l'intera prassi mitopoietica di The Mandalorian è quello della reiterazione, della replica modulare degli schemi fondamentali delle vicende narrate, dell'iterazione dei mitologemi più facilmente riconoscibili dal pubblico (da leggersi in tal senso la ricomparsa di alcuni personaggi-icona come Boba Fett o Ahsoka Tano, senza contare il coup de théâtre che chiude la seconda stagione). Molti degli episodi autoconclusivi non sono che variazioni sugli stessi temi e dinamiche. Così, la squadra di autori e showrunner sceglie da una parte di campionare elementi morfologici di sicura presa, più riconoscibili e storicizzati (perciò le mirabilia digitali della trilogia prequel, ancora invisa a buona parte del fandom, lasciano il passo alla ruvidezza cromatica della trilogia originale) e, dall'altra, allarga lo spettro dei referenti accludendovi testi pienamente introiettati (consciamente o no) dal pubblico di riferimento (la trilogia del dollaro di Sergio Leone, Lo straniero senza nome di Clint Eastwood, I sette samurai e La sfida del samurai di Kurosawa ecc.). Senza contare le decine di riferimenti interni, inside jokes, convergenze con altre opere del franchise (passate e future): una pratica pienamente disneyana (già rodata nel lucrativo Marvel Cinematic Universe), a dimostrazione di come il colosso di Burbank spinga per una sorta di automazione produttiva dei propri multiversi seriali e, allo stesso tempo, del suo tentativo di lavare l'onta della più volte schernita incoerenza della trilogia sequel.

Divisa tra retromania e pionierismo post-digitale (il massiccio ricorso a set virtuali renderizzati in tempo reale in fase di ripresa), The Mandalorian trasforma l'universo di Star Wars in un luogo di affetti e conoscenze condivise, pienamente autoriferito, dove la coralità «compartecipata» dell'epica lascia posto a un tessuto a maglie più strette, caratterizzato da storie individuali e da una forte ritualizzazione drammaturgica. La stratificata mitologia della «galassia lontana lontana» diviene l'unico a priori possibile, contemporaneamente archetipo e matrice, ma proprio per questo privato della sua natura di recettore e collettore di stimoli (culturali o sociali) che era stata la più decisiva e geniale intuizione lucasiana. Se infatti il cineasta californiano aveva pienamente compreso la fondamentale riflessione di Kerényi sul mito quale espressione definitiva di una visione del mondo, The Mandalorian diventa quasi unicamente reduplicazione d'istanze, narrazioni, linguaggi e modelli. Come se l'unico confronto dialettico possibile fosse con il macrocosmo mitologico d'appartenenza, compresa la sua capricciosa fanbase. Da questo punto di vista, la serie testimonia involontariamente uno dei limiti delle nuove grandi mitologie collettive (dal già citato Marvel Cinematic Universal a Il Trono di Spade): l'incapacità di uscire da se stesse, in una sorta di dialogo sordo con il pubblico che esclude ogni sollecitazione esterna, intrappolate in una tecnosfera atta solo a replicare se stessa (si veda anche la superfetazione di prodotti ambientati nell'universo di Star Wars recentemente annunciata da Disney).

Proprio il combinato disposto di questa rigidità strutturale unita alla prassi di ricodificazione del noto sono alla base del successo (in termini di pubblico e critica) della serie, anche per la sua indubbia capacità di conciliare comicità e scorribande avventurose, creare tormentoni (il mantra mandaloriano «this is the way»), generare introiti collaterali (lo straordinario merchandising dei prodotti a tema Baby Yoda), strizzare l'occhio al cinema d'autore (la presenza di Werner Herzog nel ruolo del misterioso «Cliente») e contemporaneamente plasmare in trasparenza peripezie e vicissitudini a misura di un pubblico trasversale per età e trascorsi, espungendo sistematicamente le più complesse dinamiche politiche, familiari, mistico-trascendentali e melodrammatiche delle trilogie cinematografiche.

Ma rimane concreto il sospetto che l'operazione forse funzioni (al di là di qualche passaggio fin troppo farraginoso) come prodotto autonomo, capace d'intercettare maliziosamente i desideri di un fandom «tradito» dagli intrighi shakespeariani della trilogia prequel e dall'eterodossia «eretica» della trilogia sequel, situandosi tuttavia lontano dalle complesse radici mitopoietiche dell'universo di appartenenza, dalla misteriosa potenza evocativa dei suoi archetipi e delle sue figure. Come se la galassia di Lucas fosse diventata paradossalmente «vicina vicina», priva della distanza epica, del tentativo di «superamento della finitezza e del non-senso del mondo nell'eternità dell'opera» (Di Giacomo) del romanzo ottocentesco, dell'ambizione di riscrittura estetica dell'immaginario che ne avevano decretato la passata grandezza.

The Mandalorian II
Usa, 2020, 8 episodi
Titolo originale:
The Mandalorian II
Ideazione:
Jon Favreau
Cast:
Amy Sedaris, Chris Bartlett, Giancarlo Esposito, Gina Carano, Pedro Pascal, Temuera Morrison
Produzione:
Fairview Entertainment, Golem Creations, LucasFilm
Distribuzione:
Disney+

È la prima serie televisiva live action ambientata nell'universo di Guerre stellari. Le vicende si svolgono circa cinque anni dopo quelle narrate nel film Il ritorno dello Jedi e 25 anni prima di quelle de Il risveglio della Forza. Il protagonista è Din Djarin, un cacciatore di taglie mandaloriano che opera oltre i confini della Nuova Repubblica.




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