Ari Aster

Midsommar – Il villaggio dei dannati

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Probabilmente amore fa rima con paganesimo. Occorre rifletterci. E le storie, quelle d’amore naturalmente, finiscono quando il copione che le riguarda, compilato secondo le regole sociali e culturali, mostra la sua banalità. Ma se l’amore, non il colpo di fulmine, non la cotta, proprio l’amore, il più circostanziato possibile e consumato, quattro anni come quelli di Dani e Christian insieme, quattro anni che non sono molti ma non sono neppure pochi, se insomma l’amore ormai qualificato perde il proprio contesto, cioè lo spazio in cui nasce e si sviluppa, il luogo politico dove trova fondamento, e se per di più è costretto a confrontarsi con una realtà disomogenea, sconosciuta e indecifrabile, ecco, in questi casi l’amore così com’è che fine fa? Muore, risorge o si trasforma? O semplicemente cede?

Ricominciamo. Probabilmente amore vuol dire assurdità. Almeno tallonando le tracce che il cristianesimo – giusto per citarne una, di religioni – si è impegnato a seminare. E quindi tutto si riduce, a conti fatti, alla classica e sempreverde battaglia tra i sessi. La storia d’amore tra Dani e Christian è in crisi (per lui, non per lei, occupata psicologicamente a elaborare un grave lutto famigliare), e il festival di mezza estate nel villaggio svedese di Hårga non è un rimedio. È lì, anzi, che l’amore, in forma di categoria e specie, modello e canone, subisce il crollo definitivo. L’amore quale concetto esclusivo non è più: nasce qualcos’altro, forse tragico, forse un’epifania, senza dubbio qualcosa di diverso. Cosa?

Il sorriso con cui si chiude Midsommar – Il villaggio dei dannati è tuttavia problematico. Un sorriso di vittoria? O di pace? A Hårga comunque si completa e si definisce la fine di una storia (d’amore). Non è casuale che l’ultima ora del film, minuto più minuto meno, sfoltisca via via lo scenario di ogni personaggio secondario e si concentri, in zoom, sui due veri protagonisti, Dani e Christian, per i quali era forse assurdo – appunto – continuare, e soprattutto continuare a patti con la tradizione e la prevedibilità di un’idea e della sua messa in pratica.

La cosa bella e sensata è quanto questa fine, se davvero si tratta della fine di una storia d’amore quale scontro tra generi, trovi compiutezza e armonia nel genere che Ari Aster sceglie di articolare. Come già in Hereditary – Le radici del male, ma con più coerenza (e più efficacia, grottesco compreso), l’horror è per Aster un campo di scoperta e di rivelazione, sgomento e shock, discussione e contrasto. È la sua Hårga. L’horror quale occasione di scontro, sfondo per la ricerca, paesaggio di svelamento. L’horror, dunque, non come manuale (d’amore), ma come eterna sorpresa, anche se spaventosa; come inevitabile attrito, infinita tensione, inverosimile (quindi inaccettabile) disaccordo. Midsommar – Il villaggio dei dannati non è infatti un horror, non ne ha la suspense e il passo. È piuttosto un mélo insaccato in dinamiche che dell’horror possiedono il mistero e l’inquietudine. Ai tempi dell’egemonia del jumpscare è un’eccezione, lo si capisce anche dall’assetto delle scene madri e dal controllo del ritmo dilatatissimo. Ma non è di per sé un valore: ciò che rende questo film così centrato è la sensazione che tra racconto e tema, tra espressione e argomento, ci sia una forte interdipendenza. Senza bisogno di spiegare niente. Senza il dovere (di mercato) di chiarire le cose (accadeva, per esempio, in Noi).

C’è piuttosto una determinazione stilistica che può sembrare capricciosa, un vezzo d’autore, e che invece credo adeguata e all’altezza delle ambizioni. Per una storia d’amore che sbanda, e che a poco a poco si sbriciola, corrisponde una cifra che scivola via (dallo scontato) e smarrisce la geografia. Mentre nel frattempo sono le stesse identità, di genere e di condotta, a venire turbate, disorientate e confuse. Identità quali immagini, campioni, archetipi. Perciò Midsommar – Il villaggio dei dannati, più che a The Wicker Man (citato abbastanza a sproposito e con comodità da chiunque: un termine di paragone più appropriato potrebbe essere The Sacrament, che tutti hanno dimenticato troppo in fretta, ma anche in questo caso il confronto è tutto sommato inopportuno), assomiglia a Woodstock, dove le giovani generazioni sono chiamate a una rifondazione culturale e politica. Sono soltanto in due, Dani e Christian, ma implicazioni e risultati non cambiano.

Midsommar – Il villaggio dei dannati
Usa, 2019, 140'
Titolo originale:
Midsommar
Regia:
Ari Aster
Sceneggiatura:
Ari Aster
Fotografia:
Pawel Pogorzelski
Montaggio:
Lucian Johnston
Musica:
The Haxan Cloak
Cast:
Archie Madekwe, Ellora Torchia, Florence Pugh, Jack Reynor, Vilhelm Blomgran, Will Poulter, William Jackson Harper
Produzione:
B-Reel Films, Parts and Labor
Distribuzione:
Eagle Pictures

Dani e Christian sono una giovane coppia americana con una relazione in crisi. Dopo che una tragedia familiare si è abbattuta sulla vita di Dani, solo il dolore li tiene insieme. È lì che Dani decide di unirsi a Christian e ai suoi amici in un viaggio che ha come meta un festival estivo in un remoto villaggio svedese. Ciò che inizia come una spensierata avventura estiva nella terra della luce eterna, prende una svolta sinistra quando gli abitanti del villaggio invitano i loro ospiti a partecipare alle festività che rendono quel paradiso pastorale sempre più snervante e incredibilmente inquietante. Dalla mente visionaria di Ari Aster, arriva una fiaba cinematografica impregnata di terrore, in cui un mondo fatto di oscurità prende vita in pieno giorno.

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