Concorso

Pacifiction di Albert Serra

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Nei tristi tropici di Albert Serra si respira la stessa atmosfera molle del settecento di Liberté; la stessa sonnolenza ovattata che governava le stanze reali in La mort di Louis XIV. L’ultimo film del regista catalano, Pacifiction – girato sull’isola di Tahiti, nella Polinesia francese, dove l’Alto commissario della Repubblica De Roler gestisce affari e relazioni politiche muovendosi in modo scrupoloso e distaccato tra discoteche, cene di lavoro, discussioni con politici locali e legami con i suoi informatori – non è il primo calato nel presente, se si considerano i lavori realizzati nell’ambito dell’arte contemporanea. A marcare la differenza rispetto al passato è piuttosto l’assenza di una cornice figurativa prestabilita e sedimentata (il romanzo picaresco, la tradizione biblica, la pittura secentesca, la cultura illuminista) da confermare e al tempo stesso ribaltare.

Nelle notti umide del Pacifico, sotto le verande di case arredate in stile coloniale, al riparo dalla pioggia morbida, alla luce ombrosa di un night, dall’alto di un aereo da turismo o di fronte alle onde spaventose cavalcate dai surfer, Serra raffigura un mondo la cui ambiguità, complessità e stratificazione non è mai esplicitata, ma è assunta dalle immagini, dall’ampiezza e dalla profondità della loro impaginazione. Il formato largo 2.35:1 e l’uso del teleobiettivo magicamente rétro, con la grana rarefatta che rimanda ai mondi coloniali di Apocalyspe Now Redux (il segmento con la famiglia francese rimasta nella giungla a presiedere i suoi possedimenti) e Querelle de Brest, alle storie dell’attrice polinesiana Tarita Tériipaia (la compagna di Marlon Brando dalla cui biografia Serra è partito per creare il suo film), restituiscono il fascino opprimente di un paradiso sospeso su un possibile inferno, dove il fuoricampo della politica e della Storia (l’esile trama ruota attorno all’intenzione del governo francese di riprendere i test nucleari dopo gli ultimi effettuati nel 1996 nell’atollo di Mururoa, responsabili di malattie e contaminazioni negli ultimi decenni) incombe come l’umidità sulla pelle e il retaggio colonialista dell’uomo bianco condiziona i legami tra francesi e polinesiani, ciascuno invischiato in una rete di reciproci interessi e reciproche diffidenze.

Il protagonista del film, De Roler, interpretato da uno straordinario Benoît Magimel (fisico sfatto, aria fané, animo sconsolato e sottilmente distaccato), è una figura novecentesca a metà tra l’eroe di un romanzo di Graham Greene, il Ben Gazzara di Saint Jack e il protagonista di un film complottista anni ’70 (in una incredibile sequenza in uno stadio si respirano atmosfere di Pakula o dell’Altman di Anche gli uccelli uccidono): con il suo ruolo di mediatore, con il suo passo felpato e i suoi occhi attenti (grazie anche alla collaborazione di una donna trans che ha eletto a sua vice), l’uomo occupa un mondo di mezzo del quale è dominatore e vittima, mai direttamente coinvolto nelle situazioni, mai veramente ubriaco o attratto da uomini o donne, ma contemporaneamente manipolatore e spettatore; troppo consapevole per credere al proprio ruolo sia del fallimento storico del colonialismo, sia dei comuni interessi di indigeni e vecchi occupanti.

Nell’unico momento chiarificatore del film – che arriva alla fine ed è forse frutto di una mediazione tra il regista e la produzione per dare un appiglio interpretativo allo spettatore – De Roler parla della politica come di una mera illusione; dei politici come di pure e semplici figure e di sé come di colui che intende accendere le luci e interrompere il sonno collettivo. Non per altro, Pacifiction – titolo dalle diverse interpretazioni, che rimanda al Pacifico, alla finzione, alla pacificazione – è immerso per buona parte in atmosfere notturne, nei locali, in mare aperto, in spiaggia, e anche quando in piena luce o al tramonto è imbevuto di toni decadenti e rarefatti. La scelta estrema di ricorrere quasi esclusivamente a campi lunghi e a totali restituisce proprio l’illusione del protagonista di controllare la realtà, di guidarla secondo i suoi scopi, e la sua condanna a essere abbandonato sulla scena – piccolo, limitato, ridotto a confondersi tra i clienti del locale che gestisce, indistinto dagli altri, eroe senza ruolo, autorità senza funzione, viveur senza vizi, occidentale senza privilegi, straniero a sé stesso e al mondo che osserva, credendo di vedere sottomarini a testata nucleare come un tempo si avvistavano creature marine mostruose. Mentre la Storia prosegue, così evidente eppure così invisibile.