Concorso

The Zone of Interest di Jonathan Glazer

focus top image

La zona di interesse: nel nuovo film di Jonathan Glazer, forse, del romanzo omonimo di Martin Amis sopravvive soprattutto il concetto evocato dal titolo, che allude allo spazio, alla dimora su cui si estendono gli interessi convergenti della coppia di protagonisti, ma anche a una descrizione eufemistica, a una circonlocuzione per evitare di dire cosa accade oltre il muro di cinta, lì a fianco. Una casa con il giardino, un orto, una piscina. La casa “dignitosa”, se non elegante, di Hedwig e Rudolph, il loro nido tutto racchiuso, riparato da una recinzione chiara; il resto, la gran parte del resto, sono fumo e rumori fuori scena: un piccolo paradiso terrestre in potenza, collocato accanto all’inferno in atto. Ma il concetto stesso di paradiso nasce da un gesto di selezione, di esclusione: pairidaêzãn, nei testi dello zoroastrismo è proprio la recinzione, da cui paradeisos in greco. Non è la prima volta che ci càpita di ricordarlo, forse proprio perché il cinema con l’idea di paradiso terrestre, hortus conclusus, o perlomeno di comfort zone, ci fa i conti da sempre, e lo fa da entrambi i lati di quel recinto, di quel diaframma, che è lo schermo: lo spettatore “classico” sta incolume nella propria postazione semi-amniotica, e di fronte, sullo schermo, si agita un universo chiuso tra quattro pareti immateriali, “un mondo che corrisponde ai nostri desideri”, per citare l’apocrifo baziniano. Ma è un meccanismo che è andato in crisi tanto tempo fa, e che forse oggi si è spostato nelle promesse labili del metaverso. E poi, in questo caso, a quale desiderio risponderebbe?

Dopo una sorta di ouverture a schermo nero, con la prima tessitura sonora cacofonica di Mica Levi, quasi il corrispettivo di una camera d’attesa perturbante, di uno spazio per la deprivazione sensoriale (addio comfort zone), ma anche per certi versi l’anticipazione dei suoni disarticolati e disarmonici che di lì a poco saranno un continuum che origina dal fondo dell’inquadratura, Glazer prende spunto dalla narrazione anticlimatica di Amis, e affida allo schermo, per piccoli accumuli, qualcosa che si connette al desiderio dei suoi protagonisti. Il sogno di una più robusta gloria militare di Rudolph Höss da un lato, e, dall’altro, quello (piccolo)-borghese di sua moglie Hedwig, immerso nella villetta di dieci stanze più sale da bagno costruita su un terreno attiguo al lager di Auschwitz. E, almeno inizialmente, lo fa quasi esclusivamente con macchine da presa azionate da un sensore, posizionate come le camere da tv a circuito chiuso, generando quasi esclusivamente campi lunghi e una registrazione e distribuzione del suono non selettiva, in cui si impasta costantemente come un’eco distorta il grido soffocato delle vittime. Un'immaginario che talvolta si contamina di scene montate con pezzi al negativo, l'immaginazione dei figli di Höss che, lontano da quella casa, assume il corpo della resistenza civile: il negativo dell'immagine digitale, d'altra parte, non è matrice generativa del positivo, come era con la pellicola, ma è proprio il suo contrario, o comunque una sua mutazione.

Glazer (con la direttrice del casting Simone Bär) affida i due ruoli chiave a Christian Friedel (Il nastro bianco, Amour Fou) e Sandra Hüller (Vi presento Toni Erdmann, Anatomie d’une chute), che indossano con fredda naturalezza, senza le forzature, senza le caricature “dell’obbligo”, da film sul nazismo, i sintomi delle nevrosi che li accompagnano: lui apatetico, pallido e un po’ gonfio, lei, caratterizzata da un blando claudicare, come una vera signora della classe media, gestisce la casa, educa i figli, riceve visite e recupera, quando può, la “roba bella”, quella che le persone di là dal muro non torneranno mai a indossare. Quando Rudolph viene assegnato a nuova mansione, la principale preoccupazione è quella di non perdere il privilegio di vivere in quel “paradiso”, anche a costo di dover accettare compromessi, di non rinunciare a quelle gioiose adunate di famiglia in piscina; momenti di convivialità straniante che non a caso ricalcano due celebri composizioni pittoriche di Lucas Cranach: la Fontana dell’eterna giovinezza e L’età dell’oro, entrambe in assoluta continuità con le mitologie di cui il nazismo si nutrì, e la seconda è letteralmente ambientata tra le mura di un giardino fuori dal tempo. Tempo che nel film fugge in avanti, in flash-forward, e passa per un istante dall'altra parte del muro, nell'Auschwitz-attrazione contemporanea, a mostrare le operazioni per certi versi paradossali di pulizia di uno spazio che non può e non deve essere pulito.

Non c’è molto altro in The Zone of Interest, eppure c’è tutto: perlomeno c’è l’unico modo ancora possibile per raccontare il campo di sterminio, attraverso il suo controcampo e il fuori campo. La vita degli ingiusti, la normalità, se non la banalità, del male, attraverso il suo nutrirsi dei desideri di una coppia di coniugi da romanzetto di consumo. Desideri proiettati là dove una volta ci illudevamo di trovare qualcosa che assomigliasse ai nostri.