Concorso

Anatomie d’une chute di Justine Triet

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La caduta di un corpo nel vuoto. Un volo che si arresta sul terreno innevato di fronte a uno chalet lasciando sul bianco alcune tracce di sangue. Insieme a quel corpo nel vuoto precipitano anche una coppia, una famiglia, l’infanzia di un bambino. La caduta, come dice il titolo, è il centro stesso dell’idea narrativa di Anatomie d’une chute di Justine Triet, che da lì - ricostruendo come l’uomo sia morto - comincia a entrare nel corpo vivo delle relazioni tra i personaggi, quelle che hanno preceduto l’evento tragico. La dinamica della caduta appare infatti confusa, le ricostruzioni non convincono e si aprono diverse interpretazioni che portano Sandra (Sandra Hüller), la moglie di Samuel (Samuel Theis), l’uomo precipitato, a essere imputata per omicidio in quello che inizialmente era parso un suicidio.

Provando a ricostruire l’accaduto, il film mette in atto uno studio “anatomico” delle relazioni attraverso una sceneggiatura precisissima che smonta, rimonta, suggerisce, apre varchi possibili con i tempi lunghi e metodici di una causa che sembra poter anche non arrivare mai a determinare la verità. La narrazione diventa così una sorta di paradossale autopsia che prende forma tra gli spazi della casa e poi, sempre di più, in quelli dell’aula dove si svolge il processo. Ma un’autopsia stranamente vitale che parla di amore e di competizione nella coppia, di tensioni e accettazione, di conflitti e riparazioni. Un’autopsia che seziona la vita e i molti modi di interpretarla, farla propria, subirla e - forse - anche di mettervi fine.

Per fare questo il film lavora con grande finezza sulla parola continuamente al centro delle dinamiche processuali ma anche della stessa vita familiare. Non solo perché Samuel e Sandra - entrambi scrittori, in crisi lui, di ben maggior successo lei - con le parole ci lavorano ma anche perché ogni tentativo di scandagliare i fatti dentro e fuori dall’aula si basa su un uso mutevole per forma, intenzione e interpretazione delle parole. Non è un caso infatti che il film inizi con una musica assordante che impedisce a Sandra di portare a termine l’intervista con la studentessa che ha ricevuto in quello sperduto chalet tra le montagne della Chavannes in cui Samuel l’ha costretta ad andare con Daniel dopo che un incidente di cui sente tutta la colpa ha quasi causato la perdita della vista al ragazzino. Parole che si disperdono coperte dai suoni, o che si dissolvono nell’aria come quelle che dovrebbe aver sentito Daniel e che sembrano poter essere una prova determinate, parole che scorrono su uno schermo proiettate nell’aula del tribunale traducendo una registrazione in cui urla e rumori inseriscono altri elementi di possibile contestualizzazione dei fatti, parole che vengono citate dalla lettura manipolatoria dei libri di Sandra dall’agguerrito pubblico ministero (Antoine Reinartz), parole che spesso si smorzato nel coinvolgimento emotivo dell’avvocato difensore (Swann Arlaud), parole che si sovrascrivono alle immagini evocate dai ricordi di Daniel o rivissute da Sandra mentre la sua vita, le sue abitudini, il suo essere vengono impietosamente rivelati al mondo e al suo stesso figlio.

In questo lavoro di messa in discussione della parola e della sua centralità, della sua unica ipotetica valenza, della sua mai esclusiva verità sta tutta la qualità del film di Triet che sgombra il campo da ogni ricercatezza formale lasciando le immagini ruvide, gli ambienti essenziali e consegnando agli attori - su tutti la magnifica enigmatica Sandra Hüller - il compito di portare in scena questa complessa dissezione della vita relazionale e delle sue cadute.