I cinquant’anni di I diavoli di Ken Russell

Le Diable au corps

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In occasione dei cinquant'anni del capolavoro di Ken Russell che da dieci anni risulta invisibile in sala per divieto di Warner Bros. e della serata organizzata da Red Shoes e Casa del Cinema in collaborazione con Cineforum e Sindacato Nazionale Critici Cinematografici e la partnership di Cineteca Nazionale, pubblichiamo un estratto del saggio di Emanuela Martini dedicato a The devils. L'articolo completo è pubblicato su Cineforum Nuova Serie n. 3 acquistabile cartaceo e pdf su www.cinebuy.com

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Aldous Huxley pubblicò I diavoli di Loudun nel 1952. Viveva negli Stati Uniti dal 1937, quando si era trasferito a Hollywood, dove ebbe una buona carriera di sceneggiatore, senza mai abbandonare la narrativa e la saggistica. Pacifista, vegetariano, adepto del buddismo, affascinato dalla possibilità di ampliare attraverso l’uso della mescalina e delle droghe psichedeliche Le porte della percezione (da Blake, è il titolo di una sua raccolta di saggi del 1954 su l’Lsd), fu uno scrittore poliedrico, acuto e immaginifico. Oggi è noto in Italia soprattutto per il suo quinto romanzo distopico, Il mondo nuovo (1932), e per l’ultimo (L’isola, 1962, dove arriva all’utopia); ma è stato uno degli intellettuali britannici più importanti della prima metà del XX secolo e, secondo alcuni critici, il suo capolavoro è proprio I diavoli di Loudun, dove avviluppa in un intreccio inestricabile saggio e romanzo. Racconta uno dei più celebri casi di presunta stregoneria, esorcismo di massa, repressione politica e religiosa della storia: nel 1631, a Loudun (cittadina del Nord-Est francese, abitata all’epoca da cattolici e protestanti), il parroco Urbain Grandier viene accusato dalla priora del convento delle orsoline di aver sedotto lei e altre monache con la complicità di Satana. Grandier, cattolico di scuola gesuita, difende l’autonomia di Loudun dall’accentramento statalista del cardinale Richelieu, che manda un suo inviato per eliminarlo. Accorrono esorcisti, piovono false testimonianze, dilaga l’isterismo delle suore di clausura. Grandier, dopo essere stato sottoposto a tortura e senza aver mai confessato il peccato di connivenza diabolica, sale al rogo il 18 agosto del 1634. 350 pagine torrenziali, dove la vicenda passa in secondo piano rispetto alle notizie, analisi, dissertazioni storiche, filosofiche e scientifiche, alla lucida indignazione di Huxley, che descrive i peccati (carnali, o di orgoglio e presunzione, non demoniaci) del suo protagonista senza mai farne un eroe, e la profonda frustrazione e i conseguenti disturbi mentali di suor Jeanne des Anges e di tante altre monache per forza, e l’ostinazione pre-scientifica di esorcisti, sacerdoti e medici, con dovizia di digressioni e approfondimenti, suggerendo analogie con il presente. Il libro fu adattato per il teatro nel 1960 da John Whiting, e nel 1969 Krysztof Penderecki ne trasse un’opera, con libretto in tedesco.

Uno scandalo in Mostra

Nel 1971, la 32° Mostra del cinema di Venezia presentò (non in concorso, erano gli anni post-68 in cui la competizione era stata abolita) I diavoli di Ken Russell, e scoppiò uno scandalo talmente grande che il direttore Gian Luigi Rondi (cattolicissimo, sostenuto nella sua autonomia artistica dall’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani) rischiò di essere estromesso, mentre fu licenziato in tronco il critico di «Avvenire», il poeta Giovanni Raboni, che aveva recensito positivamente il film. Lo scandalo non fu solo italiano ed “ecclesiastico”, ma internazionale; in realtà in Italia I diavoli uscì (vietato ai minori di 18 anni), a settembre dello stesso anno, fu denunciato e sequestrato dopo ventiquattr’ore dal procuratore di Verona, dissequestrato nel giro di quindici giorni dalla Procura di Milano e, rimesso in programmazione, andò molto bene al botteghino. Uscì anche in Gran Bretagna (classificato X, cioè vietato), anche se alcune città ne proibirono la programmazione. Negli Stati Uniti, la Warner (che produceva) senza consultare l’autore tagliò ulteriormente il film (che era già stato purgato di diversi minuti dallo stesso Russell nel corso dei vari passaggi al British Board of Film Censors), per evitare la X. Ci sono nazioni, come la Svezia, in cui I diavoli non è mai uscito. Travagliatissime le versioni home video, quasi introvabili negli Stati Uniti, come sottolineò Guillermo del Toro alcuni anni fa. E questo nonostante esista una versione contenente alcune scene tagliate, recuperate da Mark Kermode e reintegrate dal critico insieme a Russell e al montatore Michael Bradsell, proiettata la prima volta nel 2004 al National Film Theatre di Londra. La copia dvd più diffusa è quella di 111 minuti, quella “completa” si aggira sui 116 minuti e comprende i due famosi spezzoni eliminati da Russell su richiesta del Bbfc: “the rape of Christ”, (alcuni minuti aggiunti all’orgia in convento) e il momento in cui suor Jeanne, dopo l’esecuzione, si masturba con la tibia carbonizzata di Grandier. Sarebbe troppo lungo inseguire nel dettaglio le disavventure censorie del film, un film che comunque la Warner tende a “insabbiare”. Addentrandosi nel web, ci si ritrova spesso in siti horror, anche autorevoli (ma il film non è per nulla ascrivibile al genere), o immersi in apologie fanatiche, che spingono al massimo l’acceleratore su sesso, sadismo, sangue, violenza, raggiungendo toni che, seppur con fini opposti, spesso eguagliano quelli, faziosi e ridicoli, dei censori e recensori dell’epoca (non solo italiani: i critici anglosassoni e bacchettoni insorsero più di quelli latini e cattolici). Si parla poco del film, se non nei suoi aspetti sensazionalistici e provocatori, e ancora meno del suo autore, anche se tutti naturalmente elogiano Oliver Reed e Vanessa Redgrave e citano incidentalmente Derek Jarman, autore delle magnifiche scenografie.

Raccontato così, I diavoli pare davvero un’orgia di perversione e blasfemia. E invece, rivisto oggi, non solo si conferma come uno dei più bei film di Ken Russell, ma anche come uno dei suoi più stilizzati e astratti, uno di quelli in cui i suoi proverbiali eccessi vengono tenuti sotto controllo da una logica narrativa e da un preciso intento politico, che si traducono in una messa in scena dove il rigore compositivo domina sulla libera immaginazione.