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Intervista a Todd Haynes: The Velvet Underground

Pubblichiamo qui un estratto dell'intervista con Todd Haynes realizzata da Paola Casella dopo la presentazione al Festival di Cannes di The Velvet Underground, che esce oggi su  Apple Tv. La versione completa dell'intervista sarà pubblicata sul prossimo numero di Cineforum in un inserto colore tutto dedicato alla presenza, sempre più consistente nel cinema contemporaneo, di film e documentari che ruotano intorno alla musica.  


The Velvet Underground rievoca l’ecosistema sperimentale degli anni Sessanta e Settanta anche in termini formali: split screen, colori psichedelici, found footage, spezzoni dei lavori di Andy Warhol, jump cut, giustapposizioni musicali, sonorità al limite del cacofonico...
Ho cercato di creare un’assonanza fra forma e contenuto anche per rispondere ad una necessità pratica: al contrario di molti altri documentari musicali, sui Velvet Underground non erano disponibili molti filmati di concerti o di esibizioni pubbliche del gruppo, ed essendo scomparsi il frontman Lou Reed e l’icona Nico non avevo avuto la possibilità di intervistarli, come ho fatto per altri componenti del gruppo. Quello che però avevo a disposizione era qualcosa che nessuna altra band poteva fornire in questa misura, ovvero una testimonianza della cultura avant garde in cui i Velvet Underground erano completamente calati e che hanno contribuito a creare: una cultura ricchissima, e per certi versi ancora poco documentata. Non esiste un gruppo musicale altrettanto legato all’arte e al cinema avant garde: era una circostanza unica che come filmmaker non avrei potuto ignorare, e non potuto lasciarmi sfuggire la possibilità di farci leva nel tradurre in immagini la loro storia.

Arriverebbe a definire il suo documentario stesso come “avant garde”?
(Ride) Diciamo che quella era la nostra aspirazione. Volevamo condividere le idee e le sensazioni che hanno contribuito a rompere l’ortodossia e le convenzioni vigenti: che nel nostro sono caso quelle del documentario musicale, in particolare il biopic dell’artista sturm un drang tanto di moda in questi ultimi anni. L’intento era liberatorio, per noi e per il nostro modo di approcciarci al film di ambiente musicale.

Il ritratto che fa di Lou Reed nel documentario è molto onesto: non evita di mostrarne il lato oscuro, ma si tiene lontano da ogni giudizio morale.
Mi fa piacere che si capisca che è stata una scelta cosciente (Ride). Tutte le persone che abbiamo intervistato, molte delle quali conoscevano Reed sin da giovanissimo, lo raccontano come una persona piena di contraddizioni e di schermi protettivi, che spesso si traducevano in scoppi di ostilità o atteggiamenti di sfida nei confronti di chi gli era più vicino. Ma non è certo l’unico genio artistico ad avere avuto rapporti conflittuali con il prossimo! Ho cercato di raccontarlo con onestà, certo, ma volevo anche capire e restituire il suo punto di vista. Lou Reed scriveva di persone in lotta con se stesse e con gli altri, vulnerabili e incerte, per cui la vita quotidiana era difficile, e che per provare sollievo a volte avevano bisogno di assumere un qualche tipo di droga. Persone che spesso avevano bisogno di manifestare la loro ostilità, e ancora più spesso la rivolgevano contro se stesse. Lui quantomeno riusciva a canalizzare queste pulsioni attraverso la sua arte, in questo mantenendo una coerenza fra musica e vita, e a offrire la sua conflittualità al pubblico, come un dono.