CINEFORUM / 509

Quadri e inganni

 

 

CORPORALITÀ DI MISTERO E MISERIA Quasi senza soluzione di continuità fra esterni e interni, Faust e Mefistofele deambulano continuamente, percorrono viottoli, strade strette, vicoli, boschi scoscesi e bui, salgono scale, penetrano in locande affollate, chiese, botteghe, entrano in lavatoi gremiti di donne, per trovarsi alla fine, da soli, in una desolata landa di pietre e rocce infernali. Ma il loro andare – come nei sogni, come negli incubi – non ha quasi mai una direzione necessaria: è un vagare aleatorio e faticoso, interrotto da incontri ostili o ritardanti, oppure da episodi tanto drammatici (l’assassinio del fratello di Margarete) quanto privi di qualsiasi conseguenza concreta, come appunto avviene nella dimensione onirica. L’irrequietudine del loro errare ha l’ebbrezza disperata dei sogni dove si fugge senza allontanarsi mai dalla stazione di partenza. Ma sembra soprattutto la chiave di un confronto continuo fra la materia debole e vulnerabile dei loro corpi e quella del piccolo mondo sporco, stretto, opprimente e labirintico in cui si muovono inutilmente. A risaltare da questo confronto, è soprattutto la corporalità del Mefistofele di Sokurov, che dalla tradizione ha ereditato soltanto la dialettica sciolta e qualche potere non particolarmente impressionante. La fisicità immanente delle statue e sculture di santi che costellano i luoghi di culto e non solo, è sottolineata proprio dall’avventarsi del diavolo, appena ne vede una, a baciarla e leccarla, con uno slancio dei sensi che non dimostra mai verso gli esseri umani. Il Mefistofele di Sokurov è un demone spelacchiato e meschino (pratica l’usura), senza età, semianalfabeta, dalla faccia da topo e dal corpo grottescamente cadente dal torace in giù. Il suo fisico non rimane un’incognita ma viene oscenamente denudato (forse in eco alla seminudità di Hitler in Moloch) nella sequenza della lavanderia: ecco apparire una sorta di mostruoso tacchino spiumato e gonfio, senza organi genitali sotto l’ombelico ma con una minuscola protuberanza fallica cresciutagli sopra il cascante e adiposo deretano. Alla sua deformità fisica si unisce anche la sgradevolezza olfattiva, dato che emette continue flatulenze. Del resto, nel cinema di Sokurov gli odori non sono mai neutrali: ricordiamo il rilievo che assumono in Alexandra (Aleksandra, 2007), dai piedi sudici del nipote ufficiale agli altri fetori evocati dalla voce della vecchia protagonista, che evocavano nel modo più crudo e concreto il clima di un campo militare durate una guerra. Il pene pressoché inesistente del demonio sembra il contraltare di quello – enorme ma senza vita – che occupa lo schermo nella seconda sequenza del film, appartenente a un cadavere non più fresco, che il dottor Faust sta esaminando nel suo laboratorio. Una lumaca grigiastra e inerte che giace attaccata a un involucro di lì a poco sviscerato nel suo miserabile contenuto di budella e interiora, alla ricerca di risposte che non può dare, se non l’ennesima, banale conferma che siamo tutto qui. All’inquadratura ostentata del cazzo morto, segue quella (solo da immaginare, perché celata nel fuori campo da un sipario di gonne) della vagina viva di una donna titillata dal padre di Faust, che ne estrae un uovo. Soprattutto le si contrappone un’altra immagine, anch’essa filmata in primissimo piano: l’epidermide candida del ventre di Margarete e il disegno delle labbra del suo sesso. Un corpo vivo e giovane che però è cristallizzato in un quadro etereo e astratto, paradossalmente disincarnato, negato a qualsiasi contatto con il corpo di Faust. L’immagine del cazzo del cadavere non era un enigma, il mistero che aveva animato quel blocco di carne è ormai dileguato e non serviva sventrare l’involucro cui apparteneva. Il sesso di Margarete, invece, conserva ancora tutto il suo arcano. Ma è un’immagine ambigua, perché un’ellissi cela il possesso di quel corpo e, appunto, nessuna immagine mostra il dottore abbracciato alla ragazza. Se Margarete ha le fattezze angeliche dell’eterno femminino biondo e adolescenziale già raffigurato da Sokurov nel dostoevskiano Tichie stranicy (Pagine sommesse, 1993, dove adombrava la Sonja di Delitto e castigo), c’è una sequenza in cui la ragazza sembra rivelare un’inaspettata sensualità: è l’inquadratura dove vediamo il suo volto girarsi in direzione di Faust durante il funerale del fratello, quando le sue labbra e il suo sguardo sembrano tradire una pulsione puramente sensuale e animale, violenta e sorprendente, confermata dalla sua docile disponibilità a trattenersi con il dottore nel bosco, fino a quando non interverrà la madre a redarguirla. La conquista del corpo di Margarete, se possesso c’è stato, non ha portato a nessuna catarsi né salvezza, perché subito dopo Faust si ritrova nello spazio angusto della sua casa, circondato da figure degne di Bosch. Lì viene raggiunto da Mefistofele che ha acquisito una temporanea forza grazie all’armatura che indossa, senza soffrirne il peso. Quell’armatura, indossata anche da Faust, è forse la trappola di un supplizio derisorio, che esaspera il disagio e la goffaggine dei movimenti. Così vestiti, Faust e Mefistofele dovranno infilarsi nei pertugi pietrosi e fra i crateri ribollenti di uno spazio che non ha più nulla di umano (infatti il dottore vi incontra i morti, che lo aggrediscono). Il dottore prima si libera dell’armatura, poi del diavolo, che seppellisce sotto le pietre rivelando tutta la vanità del patto stipulato. Schiacciato come un lombrico, ridotto a un occhio opaco e a una fiebile voce lamentosa, Mefistofele sembra riecheggiare la fine del gelatinoso Homunculus che Wagner (l’assistente di Faust) custodiva gelosamente in una bottiglia ma che un gesto brusco di Margarete aveva fatto liquefare al suolo. È un’eco visiva che forse suggerisce, oltre al sogno di una liberazione dal Male, anche la purificazione dalla greve tristezza della carne.